Pier Paolo Pasolini è ancora troppo vicino a noi per ottenere unanime comprensione della sua statura. Avrà forse la stessa sorte di Leopardi, che ha atteso un secolo prima di essere riconosciuto come il maggiore poeta del secolo suo. Critico acutissimo dei conflitti della sfera pubblica, sociale e politica, Pasolini rischia di veder sottaciuta la sua vena poetica più sincera, di ricercatore dell'intimo umano. A ricordarcela "Orgia", atto unico in scena sino a domenica al Teatro della Pergola. Si tratta di una affermazione spietata dalla vitalità della carne che sola conta nell'esistenza, della potenza degli istinti che cozzano continuamente con le convenzioni "civili".
Ma è anche un'impressionante premonizione (datata 1968) della sorte tragica dell'autore, perduto violentemente di lì a pochi anni. E quanto la rilettura di Orgia sarebbe fondamentale per trasformare la sorte pasoliniana da un assurdo, spiegabile soltanto con la tesi del complotto, in un'occasione per affermare l'assoluto individuale, conclusione coerente di un'esperienza di intellettuale libero e unico in un panorama culturale di periferia. La regia di Massimo Castri, supportato dalla belle scene e dai costumi di Massimo Balò, declina il testo, essenzialmente di parola, con una dedizione minuziosa, risolvendo le difficoltà dei monologhi con la vitalità degli interpreti (Stefano Santospago e Laura Marinoni).
Castri si conferma gran sacerdote del rito teatrale nell'orchestrare in Orgia una rappresentazione mitologico-freudiana dell'idea pasolinana delle pulsioni esistenziali.