Franco dei Califfi: un fiorentino nel mondo del rock

Redazione Nove da Firenze
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29 novembre 2006 23:17
Franco dei Califfi: un fiorentino nel mondo del rock

Nonostante siano passati quattro decenni Franco Boldrini, musicista e autore fiorentino, noto per essere stato il leder dei "Califfi", gruppo musicale dei mitici anni'60, è sempre presente sulla scena artistica italiana. E' dal 1963 circa, almeno secondo l'esordio ufficiale, che Franco, oggi detto dei "Califfi", calca i palcoscenici d'Italia, senza accusarne la stanchezza. Mitica è stata ed è la sua carriera d'artista che lo vide esordire prima come bassista di Edoardo Vianello e poi come leader, dell'omonimo gruppo.

Un esordio dal quale si è sviluppata una vita artistica e un'esperienza umana tutta dedicata alla musica, per poi passare alla sperimentazione e all'esperienza teatrale. Una carriera lunga quarant'anni della quale non ci può essere un epilogo. La parola fine, riposo, Franco non ne vuol parlare e non ne deve parlare, perché tanti, se non infiniti, sono ancora i progetti che il cantante vorrebbe in un futuro prossimo realizzare, a cominciare da nuove sperimentazioni musicali, da nuove idee per il teatro, che con la calma di un vero artista giorno dopo giorno sta concretizzando.

Franco, che è nato a Firenze, e dalla città di Dante ha portato la canzone nel mondo, appartiene alla generazione del dopoguerra. Cresciuto tra le strade del centro storico, figlio di una modesta famiglia toscana, studia da prima Pianoforte poi il Basso e nel'63 esordisce, presentandosi all'Italia già in quel tempo scaltro sperimentatore, notevole musicista, compositore e paroliere del repertorio da lui e dal suo gruppo cantato. Inizia così la sua storia in una cantina, nel sottosuolo di casa dove insieme ai "Califfi" scrive le prime canzoni, motivi come: "Al Mattino", 1968, "Fogli di quaderno", 1969, "Così ti amo", 1970.

Canzoni d'amore, melodie dolci, nelle quali palesi sono le influenze musicali estere dal Rock al jazz. Insomma, tutto ha inizio al mattino di un giorno lontano, su fogli di quaderno strappati, su suggestioni adolescenziali, sui ti amo, sull'amicizia, attraverso il desiderio di misurarsi con gli amici, di voler fare qualcosa insieme. Un'attitudine, questa sua, che è sempre ricca d'emozioni e di suggestioni, pronta a farsi valere, a mettersi in discussione - come lui stesso tiene a sottolineare: "sto scrivendo il prossimo musicol, ma non posso svelare ancora niente.

Si tratta di un'opera teatrale che da tempo ho in mente e che ho da poco cominciato a comporla". A noi quindi non resta che attendere e, nell'attesa, ingannare il tempo ascoltando le sue canzoni.

Franco ci potresti raccontare come nacque il gruppo dei "califfi", e soprattutto a quando risalgono gli esordi del complesso? Com'era la Firenze di allora?
"Cominciamo dalla Firenze di quel tempo: c'erano dei locali tipo il " Tiffani" di via delle Casine che l'alluvione del'66 distrusse e che poi fu trasferito nel lungarno Colombo e che diventò il locale dei "Califfi".

Poi c'era la "Siesta", il "Jolli Club". Il gruppo esordì nel 1965, quando venni via da Edoardo Vianello, del quale ero il bassista, e con cui feci il primo cantagiro conoscendo i grandi della musica italiana da Paoli, a Morandi, alla Pavone. Grazie a queste amicizie decisi di mettermi in proprio e creai i "Califfi". Nonostante questo, a Firenze la realtà era limitata: mancavano le strutture idonee per quest'attività, a cominciare dalle case discografiche, dall'impresariato di livello nazionale, e quindi fu molto difficile creare questo gruppo, fare qualcosa di diverso.

Certo, in quel tempo nacquero decine di complessi ispirati ai Beatles, a Firenze come nel resto della Toscana, però per dare la giusta stoccata era difficile.soprattutto riuscire a incidere un 45 giri. Questo si avverò quando facendo un giro bit per diversi locali insieme ai "Giganti", ai "Profeti", ai "Pooh", ai "Camaleonti", arrivammo al "Palalido" di Milano e componemmo le nostre canzoni, tant'è vero che Giorgio Gaber ci fece la proposta di fare un complesso con lui, perché gli piacevamo come quartetto, e poi ci presentò alla "Record" che ci stipulò un contratto per tre anni con la prima incisione "Al Mattino" e poi con "Così ti amo".

Le canzoni che proponevate erano scritte da te, dato che eri il cantante del gruppo, o erano delle cover?
"Al Mattino è scritta da me e da Francesio, però Così ti amo era una cover che tradussi allora.

Molti complessi facevano cover di gran successo, mentre la canzone da me tradotta era inedita per l'Italia. La tradussi dopo che dalla Germania mi arrivò un 45 giri con la versione originale, tanto è vero che delle due versioni quella più conosciuta era la nostra".

I "califfi" hai detto che erano un quartetto, ma i componenti erano tutti di Firenze?
"Si, eravamo tutti fiorentini. Ora bisogna dire che i Califfi sono spesso cambiati, inizialmente eravamo un gruppetto d'amici, poi.Con Tofani, che successivamente andò negli Area, il gruppo si compose con la presenza di Bettolo, e Romoli.

Inseguito gli elementi del complesso furono cambiati, soprattutto per questioni d'esigenza tecnica. Nel settanta cambiarono le tastiere, vennero fuori altri strumenti quindi ci si scambiava di posto a seconda dell'esigenze. Così entrarono a far parte della band: mio fratello Maurizio Boldrini alla batteria, Amadei alla chitarra e Cinotti, grande organista, alle tastiere. Con questi nuovi elementi ci presentammo alla Fonicetra e nacque Fiore di Metallo, un pezzo di gran successo che oggi sul mio sito è tradotto in più lingue".

Quindi, da quel che è emerso, tu eri anche il paroliere dei Califfi, o sbaglio?
"Ho cominciato come paroliere quando scrissi alcune canzoni come Fogli di quaderno, e da allora, oltre ad essere musicista, scrivo anche i testi".

Ora a confermare quello che si è detto urge una breve riflessione: quanto volevano significare gli approcci tecnici, quanto e soprattutto come mutavano le esigenze artistiche del gruppo e nel complesso?
"Le esigenze cambiavano di continuo, dalle strumentazioni al modo di suonare.

Per il primo disco che incisi, considera, usai il quattro piste per la registrazione, cioè uno dei tanti modi analogici d'incisione. Dal'66 al'69 ci fu un cambiamento notevole di tecniche, partendo dalle sale incisioni: incidere un album su quattro piste è roba, bisogna avere un approccio non indifferente. Anche sotto un profilo tecnico quindi nei complessi si respirava una rivoluzione continua, di mutamento genetico per quanto secerne la musica. Io in quel tempo ero un contrabbassista, cioè suonavo il contrabbasso di legno a differenza di molti e questo richiedeva da parte dei Califfi un approccio diverso alla musica".

Firenze, nonostante tutto fosse una città importante, dove da sempre si respira aria d'artista, non vi restava piccola? O meglio, non vi sembrava una città che limitasse molto le possibilità d'esprimervi totalmente?
"Milano era la città della musica.

La casa discografica, durante l'incisione di un disco, ci fece la proposta di trasferirci a Milano, ma non era semplice. In quel periodo mi sposai, avevo una bambina in arrivo, gli altri lo stesso e così decidemmo di restare a Firenze. Certo, a livello di carriera restare a Firenze ci ha limitato molto, avessimo avuto la fortuna dei Pooh, che allora stavano per sciogliersi, d'avere certi contatti tutto sarebbe stato diverso. Anche se musicalmente eravamo preparati non avendo certi contatti e non vivendo in certi ambienti, lontani dai clamori del Piper di Roma, o da certi locali di Milano, ci ha sacrificato molto".

Provavate molto durante la settimana?
"No.

Non si provava quasi mai. Molto ci si preparava in macchina andando ad un concerto. Quasi tutto era basato sull'improvvisazione, sulla gestualità. Avevamo però una cantina, che era la mia, in via Manfredo Fanti e là ci si trovava spesso, ma tutto era affidato, per la maggiore, al sapere fare sul palcoscenico".

Come la presero i tuoi genitori la scelta di fare il musicista. Voglio dire, in una piccola città come Firenze dove da sempre le famiglie si sono occupate d'artigianato e di piccoli esercizi commerciali, come fu vista l'idea di fare il cantante, di intraprendere una carriera non facile?
"Mio padre l'ho perso giovane: morì quando ero piccolo, quindi rimasi solo con mia madre e i miei zii.

Non ci furono discussioni, credevano in me, avevano molta fiducia in quel che facevo. Poi in casa ho sempre avuto dei musicisti: mia zia suonava il pianoforte, mia madre idem, quindi respiravo già a quei tempi la musica, e la decisione non poteva essere qualcosa di diverso".

Ho, però, la sensazione che ha livello tecnico i Califfi si siano differenziati molto rispetto agli altri gruppi di quell'epoca, o sbaglio?
"Penso, a livello di musica, che eravamo il gruppo numero uno. Venivamo da un retroterra jazzista, a parte i batterista, quindi approntavamo una melodia matura, più incisiva, giocata sui tempi e sulle sfumature.

Infatti, quando ci fu una serata particolare in Italia, vicino Pisa, parteciparono i migliori jazzisti e ci chiamarono. Quindi, i Califfi, che avevano una cultura diversa furono presi in considerazione, pensa che in quel concerto eravamo l'unico complesso italiano a parteciparvi".

Parlando della parte letteraria delle canzoni, non credi che i Califfi, nonostante fossero d'avanguardia, proponessero dei testi diretti, di non complicata scrittura, di immediata comprensione poetica?
"I testi li scrivevo istintivamente, perlopiù parlavano d'amore, di sentimenti.

Erano, per la maggiore, dei flash che avvertivo e che mettevo per iscritto. Solo nel'72 con Fiore di Metallo vi è un'attenzione più civile, quindi una ricerca poetica meno immediata. In effetti, i pezzi dei Califfi non avevano niente a che fare con la canzone di protesta o politica. Quel tipo di canzone, di registro poetico, di spessore linguistico apparteneva all'ambito cantautoriale di Tenco, di De Andrè, di Vecchioni"."

Mi sapresti dire quando si sono sciolti i Califfi?
"Si.

Il gruppo si sciolse intorno al 1973. Io avevo già cambiato esigenza musicale, ero entrato come autore televisivo. Poi ho fatto teatro, scrivendo diversi musicol, il regista teatrale. Insomma mi sono impegnato su altri fronti artistici".

Franco, in Italia spesso intorno alla musica pop si sono sviluppati pregiudizi non tanto felici, ad esempio il dibattito di considerare la musica poesia oppure qualcosa di diverso è sempre aperto. Secondo alcuni intellettuali, quale lo stesso Edoardo Sanguineti, emerito poeta e accademico, considera la canzone qualcosa di altro rispetto alla poesia, eppure negli anni sessanta la canzone ha sostituito in parte la poesia.

Tu come la pensi in merito?
"Il cantautore è un poeta: lo è a tutti gli effetti. In Francia lo chansonier è considerato un autore di versi prestato alla musica. Ora se la motivazione che fa decretare non poesia una canzone è la musica il problema è inesistente. Io credo che bisogna rifarsi alla Francia, che da sempre fa scuola, quindi considerare l'autore di un testo musicale un poeta, perché lo è. Infatti, come presuppone la domanda, la canzone ha sostituito la poesia nell'era contemporanea, ne ha appreso il canone, certe sfumature, gli aspetti di base.

Ha, come la poesia, avuto e ha un proprio canale comunicativo, un punto d'approccio sociale. Insomma è una forma d'espressione non certo minore rispetto alle altre arti".

Oggi com'è il tuo rapporto con i giovani? Li vedi tanto diversi da quelli di allora?
"Ho un buon rapporto e questo me ne accorgo durante i concerti. Quando interpreto le canzoni mie mi rendo conto, parlando d'amore, che sono sempre attuali e che i giovani, pur non conoscendole, sono attenti, le apprezzano molto".

Quanto è cambiata Firenze da allora? E soprattutto tu come la vedi, come la vivi?
"La vedo disastrata.

Certo rimane una città bellissima, di perpetua bellezza, ma una città che offre poco dal punto di vista artistico. Anche perché non rispetta molto i propri artisti. Sotto questo profilo non è mai stata generosa. Io quando vado fuori che mi presentano come fiorentino mi accorgo di questa lacuna. Ai Califfi poi non li ha aiutati. Da sempre gli artisti hanno un rapporto tormentato con questa città, forse è qualcosa che non si può spiegare. Ti faccio un esempio: nel festival che frequento di norma, dove si esibiscono cantati degli anni sessanta, ho incontrato Giuliano dei Notturni e lui mi raccontava che a Vicenza, sua città natale, il comune ha nel sito ufficiale nominati tutti gli artisti della città.

A Firenze questo non c'è, mi spiace a dirlo ma è così".

Oggi quando fai una serata con quanti musicisti ti muovi?
"Adesso sono solo. Gli arrangiamenti me li faccio da me, anche per motivi economici. Inoltre, avere una band, spostarsi concerto dopo concerto, richiede un'organizzazione non indifferente, che non posso avere".

Quali sono i tuoi impegni futuri? Si tratta di progetti musicali oppure teatrali?
"Sono teatrali. Sto scrivendo un altro musicol. Poi, per quanto riguarda la musica continuerò a fare serate soprattutto nel nord - est dove sono molto richiesto.

"

Come la vedi l'ultima generazione musicale? Secondo te ci sono attualmente delle promesse future?
"Vedo in quest'ultima generazione una forte preparazione tecnica, che noi non potevamo avere. Adesso, inoltre, ci sono alcuni che hanno delle qualità importanti, molte espressive, delle idee geniali come Tiziano Ferro. Insomma si tratta di una generazione diversa, secondo me molto promettente".

Iuri Lombardi

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