La relazione dell'assessore alle politiche sociosanitarie Giacomo Billi sul Piano sanitario regionale 2002/2004

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
07 febbraio 2002 19:20
La relazione dell'assessore alle politiche sociosanitarie Giacomo Billi sul Piano sanitario regionale 2002/2004

Questo il testo della relazione dell'assessore alle politiche sociosanitarie Giacomo Billi davanti al Consiglio Comunale convocato per discutere sul Piano sanitario regionale 2002/2004

I rischi e le opportunità del federalismo
I Comuni delle quattro zone socio-sanitarie della Provincia di Firenze hanno seguito con grande attenzione il processo di elaborazione del Psr 2002-2004 che è stato scandito nel corso del 2001 da tre tappe fondamentali: la presentazione delle linee guida a gennaio, l'approvazione dello schema base di Piano nel periodo estivo e infine la definitiva approvazione da parte della Giunta Regionale della proposta di Piano trasmessa al Consiglio.

Questo approccio metodologico ha consentito lo sviluppo di un ampio dibattito che ha registrato numerosi contributi da parte degli enti locali della nostra Regione ed ha evidenziato con chiarezza la rilevanza strategica del prossimo strumento di programmazione sanitaria regionale. Si tratta, infatti, del primo Piano Sanitario successivo alla riforma in senso federale dello Stato, confermata dai cittadini il 7 ottobre scorso, che, al di là delle diverse opinioni che si confrontano sui temi del federalismo, apre oggettivamente uno scenario che si presta ad una duplice lettura: da un lato, grandi opportunità per nuove forme di governo e di responsabilizzazione locale nelle politiche per la salute, dall'altro, forti rischi derivanti da un eccesso di differenziazione tra Regioni che potrebbe mettere in discussione la natura solidaristica del servizio sanitario nazionale e compromettere la piena applicazione dei livelli minimi ed essenziali di assistenza sul territorio nazionale.

Se, infatti, le scelte di modificare gli attuali modelli di organizzazione dei servizi sanitari dovessero andare oltre la logica del patto di solidarietà per la salute indicato dal Psn 1998-2000 e dal Decreto Legislativo 229, rischieremmo di compromettere le garanzie universalistiche fornite dagli attuali livelli di assistenza. Non è, però, questa la sede in cui sviluppare una riflessione teorica su scelte di carattere nazionale che dipendono da noi in misura molto limitata. Questa è, invece, la sede in cui concentrarsi sulle opportunità del federalismo sanitario, sulle scelte che dipendono realmente da noi e che dovranno caratterizzare il modello sanitario toscano.



Il modello toscano: dalla sanità alla salute
Da questo punto di vista, la proposta di Piano compie scelte precise ed inequivocabili ed individua un filo conduttore che attraversa l'intero documento di programmazione e che può essere efficacemente riassunto, prendendo in prestito il titolo scelto per l'ultima relazione sullo stato sanitario del paese: dalla tutela sanitaria alla promozione della salute come obiettivo centrale che può essere raggiunto solo attraverso il coinvolgimento di tutta la comunità.

Il salto, prima ancora culturale che organizzativo, dalla sanità alla salute può essere simbolicamente indicato come il passaggio da una sanità concepita come problema individuale, che riguarda soprattutto la singola persona di fronte alla malattia, alla salute come obiettivo di un'intera comunità che vuole prendere in mano il proprio destino e che si organizza in modo da garantire ad ogni cittadino l'espressone piena delle proprie potenzialità fisiche, psichiche e sociali. Questo cambiamento culturale si è già affermato, ma la traduzione operativa di questi principi richiede certamente tempi lunghi di realizzazione, non fosse altro che per l'esigenza di rivedere e integrare fra loro i modelli organizzativi e gestionali dei diversi livelli decisionali operanti sul territorio: dai Comuni allo stato centrale.

Presentando l'ultima relazione sullo stato sanitario del paese, l'ex Ministro della Sanità, Umberto Veronesi (un professionista della sanità, certo non un politico di professione) ha detto con chiarezza incontrovertibile che "la conquista della salute non è più concepibile come un compito riservato unicamente agli operatori della sanità, ma deve diventare terreno su cui si confrontano e collaborano tutti i soggetti sociali e istituzionali perché la domanda di salute è qualcosa di diverso dalla domanda di sanità.

Se la domanda di sanità, infatti, è strettamente legata alla richiesta di prestazioni tecnico-professionali valide e garantite a tutti i cittadini, la domanda di salute riguarda i processi esistenziali e la qualità della vita e non può che avere come protagonista la comunità intera che è il luogo in cui trovano senso e concretezza le azioni e il nostro vivere quotidiano. Il Ministero della Sanità con le sue articolazioni sul territorio può essere solo lo strumento operativo di indirizzo e orientamento.

Ma è indispensabile un'azione corale di tutti gli altri Ministeri ciascuno nel proprio ambito di competenza e con le proprie risorse tecniche e scientifiche. Così come è fondamentale il ruolo delle Regioni e degli enti locali radicati nel tessuto sociale del paese". La proposta di Piano sposa in pieno questo approccio culturale che non può che rimettere al centro del sistema i Comuni che, da un lato, sono gli unici pienamente legittimati a rappresentare le loro comunità locali, responsabilizzandole sempre di più verso il conseguimento di obiettivi di salute, e dall'altro, possono incidere concretamente su molti determinanti della salute (le condizioni ambientali, le varie forme di inquinamento, il contesto produttivo, gli stili di vita, ecc.).

E qui risiede proprio la vera ragione della dichiarata volontà politica degli enti locali di tornare a giocare un ruolo da protagonisti nel mondo della sanità. Un ruolo di forte indirizzo politico, concentrato sugli obiettivi di salute delle popolazioni locali e sulle strategie per conseguirli, capace di recuperare la sostanziale esautorazione degli enti locali avviata dalla prima riforma organica del servizio sanitario nazionale - il decreto legislativo 502 del 92 - che, da un lato, aveva concentrato le responsabilità della programmazione sanitaria in capo alle regioni e, dall'altro, aveva avviato un processo di aziendalizzazione della sanità che, pur condivisibile nelle linee e negli obiettivi di fondo, non era sufficientemente integrato con le comunità locali e le loro amministrazioni di riferimento.

Siamo consapevoli, siamo tutti consapevoli, che si tratta di un compito certamente molto difficile, che la classe dirigente degli enti locali deve fronteggiare con mezzi adeguati, predisponendo idonei strumenti organizzativi ma attrezzandosi anche sul piano culturale con serietà e competenza; rinunciando, cioè, ad un approccio troppo spesso improvvisato e superficiale e a prese di posizione velleitarie e propagandistiche. E dunque, senza alcuna nostalgia del passato, senza alcun rimpianto, almeno da parte mia, per i comitati di gestione delle vecchie USSL, i comuni vogliono e devono riappropriarsi di una responsabilità politica, di quella responsabilità politica che il decreto 229 gli attribuisce, con la consapevolezza che, senza l'apporto delle comunità locali, il governo della sanità si stacca inesorabilmente dai bisogni dei cittadini e rischia di perdere di vista la sua missione fondamentale: la tutela della salute come diritto fondamentale di ogni persona.



I Piani Integrati di Salute
Lo strumento operativo, immaginato dalla proposta di Piano per dare concretezza al passaggio dalla sanità alla salute, è costituito dai Piani integrati di salute che, secondo le indicazioni regionali, "scaturiscono da un procedimento di concertazione al quale partecipano i soggetti istituzionali e quelli rappresentativi delle comunità locali; sono coerenti con l'impostazione regionale della programmazione integrata, che sta alla base del Programma Regionale di Sviluppo, e si allineano alle direttive della Organizzazione Mondiale della Sanità sullo sviluppo della salute nelle comunità".

Il luogo di ideazione, condivisione, realizzazione e valutazione del Piano integrato di salute è la zona socio-sanitaria con la quale dovranno coincidere le articolazioni organizzative delle Aziende Sanitarie, cioè i distretti, anche perché la distinzione fra i due livelli ha determinato sovrapposizioni di funzioni e confusione di ruoli. La proposta di Piano non spiega con sufficiente chiarezza il processo di elaborazione e le modalità di approvazione dei Piani integrati di salute, rinviando alla Giunta Regionale la definizione delle linee guida di supporto alle Aziende Sanitarie ed alle Amministrazioni locali.

Se posso anticipare un'opinione, credo che, per evitare la moltiplicazione degli strumenti di programmazione a livello zonale ed il rischio di duplicazioni, le Conferenze dei Sindaci di Zona non potranno limitarsi ad esprimere l'indirizzo politico, ma dovranno approvare, congiuntamente alle Aziende Sanitarie, i Piani di salute in cui saranno assorbiti gli attuali strumenti della programmazione sociale e sanitaria anche per realizzare quella compiuta ed effettiva integrazione fra i servizi sociali e quelli sanitari che rappresenta l'altra grande sfida a cui siamo chiamati.



L'integrazione socio-sanitaria
Oggi questa decisiva integrazione - di cui parliamo praticamente da sempre - può finalmente prendere le mosse e trovare chiari punti di riferimento nel quadro normativo nazionale che si è delineato negli ultimi due anni, prima con la riforma sanitaria del giugno '99, poi con il testo unico degli enti locali ed infine con la storica legge quadro sull'assistenza, la legge 328 per la realizzazione del sistema integrato delle politiche e degli interventi sociali.

Oggi finalmente, per la prima volta, il nostro stato sociale dispone di un assetto normativo chiaro e definito; non abbiamo più alibi, anche se le differenti concezioni culturali e politiche che si sono confrontate in questi anni hanno mantenuto su due binari distinti - anche se integrati - l'assistenza sanitaria e il sistema dei servizi socioassistenziali. Sarebbe stato preferibile, invece, come una parte qualificata del terzo settore italiano aveva auspicato, giungere ad un'unica legge quadro sui servizi alla persona, che unificasse, in un organico sistema di servizi a livello locale, regionale e nazionale, assistenza sociale e sanitaria, realizzando così in modo compiuto l'integrazione da tutti proclamata.

Sappiamo che le cose sono andate diversamente e purtroppo non si è riusciti a cogliere appieno il criterio fondamentale dell'unitarietà dei servizi alla persona, assistenziali o sanitari che siano. Ho voluto fare questa sottolineatura - ci tengo a dirlo con chiarezza - non per rimpiangere ciò che non è stato, né per sottovalutare, la portata storica di riforme che hanno gettato le basi su cui può ora poggiare uno stato sociale moderno, pronto ad affrontare le sfide del futuro e soprattutto uno scenario socioeconomico di riferimento profondamente diverso dal passato.

Ho fatto questa sottolineatura perché il riferimento costante alla centralità della persona nel sistema dei servizi deve restare la nostra stella polare; deve restare, cioè, il principio guida che ci accompagnerà nella concreta attuazione delle riforme e nei percorsi di elaborazione degli strumenti di programmazione. Noi siamo abituati, un po' per pigrizia mentale, un po' per cultura acquisita, a ragionare per categorie schematiche di bisogni e di persone: gli anziani, i disabili, i malati psichici, i tossicodipendenti.

E dimentichiamo una verità che può apparire ovvia ma che la pratica quotidiana spesso trascura: dimentichiamo che all'interno di ognuna di queste categorie ci sono persone completamente diverse l'una dall'altra, ciascuna con una propria storia, un proprio percorso, un modo diverso di manifestare i propri bisogni. E allora, se questo è, noi non possiamo né standardizzare troppo le nostre risposte né schematizzare rigidamente i percorsi assistenziali. Al contrario, la nostra risposta deve essere la personalizzazione degli interventi, in assenza della quale si procede alla semplice riproducibilità tecnica delle prestazioni senza attuare e progettare risposte che tengano conto invece della specifica natura dei bisogni da affrontare.

E la personalizzazione degli interventi è una delle premesse costitutive dell'integrazione sociosanitaria, che già il piano sanitario nazionale '98-2000 aveva indicato come la strada maestra, affermando testualmente che la complessità di molti bisogni richiede la capacità di erogare risposte fra loro integrate, in particolare sociosanitarie; e aggiunge: se non vengono predisposte condizioni istituzionali e gestionali per coordinare gli interventi dei diversi settori impegnati nella produzione di servizi, l'integrazione professionale non può bastare per migliorare la qualità e l'efficacia delle risposte; per questo, le regioni devono incentivare le collaborazioni istituzionali entro ambiti territoriali adeguati, formulando in via preferenziale, piani unitari dei servizi sanitari e sociali a livello regionale e subregionale.



Le Società della Salute
Da questo punto di vista, i Comuni hanno lamentato più volte i ritardi della Regione nella predisposizione del Piano Integrato Sociale 2002 - 2004 anche perché la legge 328 sui servizi sociali ci offre la storica opportunità di riallineare la programmazione sociale con quella sanitaria. Sono pienamente consapevole della complessità e delle difficoltà insite in questo percorso, ma vorrei riaffermare questa fondamentale esigenza anche in questa sede perché è abbastanza difficile realizzare l'integrazione socio-sanitaria a livello locale se i due strumenti regionali della programmazione sociale e sanitaria non dialogano fra loro.

Detto questo, non per amor di polemica, ma solo per cercare di recuperare, almeno parzialmente, in dirittura d'arrivo questo obiettivo, voglio dire che ritengo invece assolutamente convincente la scelta fondamentale indicata dalla proposta di Piano per realizzare sul territorio una piena integrazione fra i servizi sociali e sanitari. Come noto, questa scelta si fonda sull'idea di dare vita, in modo sperimentale e nelle zone socio-sanitarie in cui i Comuni e l'Azienda Sanitaria manifesteranno la loro disponibilità, alle cosiddette Società della Salute che rappresentano un nuovo modello organizzativo che restituisce agli enti locali pari dignità nel rapporto con le Aziende Sanitarie per il governo della sanità non ospedaliera.

La proposta di Piano afferma esplicitamente che "nell'ambito della sperimentazione, il Comune non assume solo funzioni di programmazione e controllo, ma compartecipa ad un governo comune del territorio finalizzato ad obiettivi di salute e diviene a tutti gli effetti cogestore dei servizi socio-sanitari territoriali".

Alcune osservazioni sintetiche
1) La Società della Salute non è una mera scelta organizzativa. Al contrario, si tratta della scelta politica di fondo che delinea con chiarezza il modello toscano: un sistema sanitario, incentrato sulla programmazione pubblica, di tipo solidaristico e universalistico, che chiede ai Comuni una impegnativa riassunzione di responsabilità nel governo della sanità, orientando l'intero sistema verso il conseguimento di più elevati obiettivi di salute.

E', dunque, infondata l'obiezione secondo la quale il Piano Sanitario dovrebbe contenere la disciplina di dettaglio per la concreta attuazione delle Società della Salute, arrivando addirittura a definire subito la forma giuridica e le modalità organizzative. Se il Piano avesse fatto questa scelta, personalmente l'avrei bollata come un atto di puro centralismo regionale ed una grave interferenza nell'autonomia degli enti locali. Il Piano delinea con chiarezza una scelta politica di fondo, ma il processo di attuazione sul territorio non può che essere affidato alla responsabilità delle comunità locali.


2) Vorrei anche aggiungere che, se le società della salute sono questo, viene meno anche un'altra obiezione - a mio avviso tutta ideologica - secondo la quale con questo strumento innovativo si avvierebbe il processo di privatizzazione della sanità toscana.

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