Oggi a Villa Vogel si è svolto un convegno per celebrare questo evento e per trasmettere il senso di una vicenda sociale e urbanistica che ha segnato profondamente la storia della nostra città nel secondo dopoguerra. L'assessore Gianni Biagi, introducendo i lavori ha rievocato la straordinaria opportunità che ebbero gli amministratori di quel periodo di progettare interi pezzi di città e ha sottolineato come il nuovo piano strutturale di Firenze, che presto sarà sottoposto al vaglio della città in vista della sua adozione definitiva nel 2005, preveda una forte valorizzazione delle identità dei diversi quartieri nel rispetto della loro peculiarità originaria.
Corrado Marcetti (Fondazione Michelucci) ha ricordato una recente inchiesta della Fondazione che ha permesso di verificare come la qualità della vita in un quartiere come l'Isolotto risulti sorprendentemente superiore ad altre zone tradizionalmente reputate più prestigiose sotto il profilo residenziale.
Marcetti ha messo in relazione questo dato con la progettazione urbanistica del quartiere e con la particolare condizione di crogiuolo sociale che ne è scaturita, con tutta la ricchezza che questo ha implicato per la vivacità, articolazione e fermento civile del territorio.
È toccato poi all'architetto Paola Di Biagi (Università di Trieste) di tracciare un profilo del gigantesco piano edilizio dell'Ina-Casa che, dal 1949 al 1963, consentì di costruire 350.000 alloggi in tutta Italia. Di Biagi ha sottolineato la compresenza in quella visione politica di una concezione di interventismo statale di tipo keynesiano e di una ideologia solidaristica cristiana.
Non a caso i protagonisti di quella grande stagione politica e progettuale furono Dossetti, La Pira e Fanfani, tutti esponenti della cosiddetta sinistra sociale cattolica. Nel suo intervento Paola Di Biagi ha ricordato l'idea "organicistica" di città sottesa al progetto dell'Isolotto, una città intesa come corpo vivo e integrato capace esso stesso di trasmettere anima e identità.
Daniela Poli (Università di Firenze), autrice di una recente pubblicazione sull'insediamento dell'Isolotto, ne ha ripercorso i criteri progettuali, ricostruendo il clima di fervore e di creatività che caratterizzò il pool di architetti che ne fu artefice (Michelucci, Del Debbio e molti altri).
La ricercatrice della Facoltà di Architettura ha tracciato la storia del villaggio attraverso l'iter amministrativo (protagonisti i sindaci Fabiani e La Pira e il commissario prefettizio Salazar), la progressione dei cantieri, le prime difficili traversie degli abitanti, ivi comprese le notti in tenda del parroco senza casa e senza chiesa (la chiesa venne realizzata solo successivamente) Enzo Mazzi, destinato da lì ad un decennio a dare una notorietà internazionale all'Isolotto con la sua Comunità di Base.
Daniela Poli ha poi descritto quelle che furono le idee guide nella progettazione architettonica degli spazi: i cortili (o chiostrini), come spazi di connessione fra i lotti residenziali; il cuneo verde, rappresentato dal viale dei Bambini, a scandire un sodalizio fra abitazioni e natura; i nuclei abitativi concepiti come piccole unità autosufficienti. La relatrice si è poi soffermata sulla composizione sociale delle famiglie assegnatarie e ha tracciato uno spaccato di quel particolare melting pot che fu l'Isolotto anni '50 (profughi giuliani e istriani, contadini delle valli toscane sfollati a Firenze durante la guerra, famiglie del centro storico che avevano perso la casa durante i bombardamenti).
Una congerie di differenze e di stratificazioni che ha poi finito con il connotare questo come il quartiere dell'accoglienza e dell'integrazione sociale.
Gabriele Corsani (Università di Milano) ha focalizzato la figura del Sindaco La Pira e la sua "teologia della città", desunta dalla visione cristiana della "Civitas" di San Tommaso. Nel suo potente afflato religioso La Pira pensava e sentiva la città come una famiglia, calda ma anche accogliente, comunitaria ma anche aperta ai venti del mondo.
Claude Jacquier (Università di Grenoble) è partito dalla vicenda dell'Isolotto per delineare la problematicità dei rapporti fra centro e periferia delle città, così come si sono evoluti negli ultimi 50 anni.
Jacquier ha descritto il processo di destrutturazione e "balcanizzazione" in corso nelle città occidentali, con una perdita di senso e di identità che sembra difficile da contrastare, sotto la spinta irresistibile di interessi economici che disegnano e strappano a loro piacimento il tessuto urbano. Come si può contrastare questa tendenza? Solo con un approccio integrato e orizzontale, sottolinea Jacquier, costruendo la città con la partecipazione attiva degli abitanti e attraverso il concorso di tutte le energie civili.
In questo il modello dell'Isolotto e la sua vicenda storica possono costituire davvero un punto di riferimento prezioso.
Chiara Mazzoleni (Università di Venezia) ha messo in relazione l'esperienza della comunità di base con altre importanti elaborazioni innovative e partecipative scaturite dal clima della ricostruzione post-bellica e dall'anelito di pace che l'accompagnava: l' "utopia concreta" di Adriano Olivetti nella sua azienda-modello di Ivrea; l'attività pedagogica di Danilo Dolci in Sicilia; i Centri di Orientamento Sociale creati dal filosofo pacifista Aldo Capitini.
Tutte queste realtà avevano in comune alcuni tratti essenziali e costitutivi: la dimensione assembleare, l'aspetto di comunità aperta (in contrasto con la comunità identitaria e escludente che anche oggi ritorna nelle varie 'piccole patrie' leghiste e localistiche), l'etica della responsabilità (secondo una stretta correlazione fra diritti e doveri), l'elemento di spontaneità, sperimentalismo e pluralismo. Tutte queste qualità sono andate sfaldandosi negli ultimi decenni facendo assurgere la partecipazione ad un rito "formalmente" assorbito nelle procedure istituzionali ma sostanzialmente svuotato della sua carica dirompente e innovativa.
Enzo Mazzi (Comunità dell'Isolotto) ha evocato il contesto nel quale maturò la sua esperienza ecclesiale.
"Venivamo dalla guerra e dalla paura, dall'odio e dall'inimicizia e dentro di noi c'era un gran desiderio di speranza e di fiducia nel futuro". "La Pira dette agli assegnatari dell'Isolotto le chiavi del Paradiso ma quel Paradiso, ha proseguito Don Mazzi, presentava delle grosse crepe. C'erano le case della città satellite ma mancava tutto il resto: la scuola, il trasporto pubblico, il mercato, i negozi, la farmacia. Abbiamo dovuto strappare i servizi ad uno ad uno con le lotte popolari. Quella che si stendeva di là dalle mura era ancora la vecchia Sardigna Ora aveva cambiato nome: si chiamava Corea, poi Bronx, o quartiere-dormitorio.
Un posto dove la gente teneva il prezzemolo nella vasca da bagno, secondo un pregiudizio allora molto radicato". "Negli anni '60 è cominciato un percorso di riscatto che ha visto la saldatura fra fabbrica e territorio e che ha permesso al quartiere-dormitorio di essere incluso dentro le mura. Ma quella cinta, ha concluso don Mazzi, non è scomparsa, si è solo spostata più in là, sotto il ponte all'Indiano, al Poderaccio, nella nuova Sardigna dove vive il popolo rom".