Francesco Grifoni: confessione di un giovane attore

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
15 aprile 2007 00:15
Francesco Grifoni: confessione di un giovane attore

E' lo sguardo cinematografico, leggermente malinconico, riflessivo, ciò che colpisce lo spettatore di Francesco Grifoni, il giovane attore fiorentino da anni impegnato nel cinema e nel teatro. Uno sguardo che va al di là della tecnica recitativa, che cattura l'occhio innocente di colui che guarda. Se il cinema secondo alcuni studiosi è l'arte del non detto, del non visto, allora nel caso del giovane attore fiorentino la tesi è confermata. La sua tecnica recitativa, la postura corporale e la mimica derivano dal fatto che Francesco da diversi anni, nonostante la sua giovanissima età, si impegna ad essere un attore teatrale e cinematografico di talento.

Sin dai primi anni della sua trascorsa adolescenza ha calcato i palcoscenici fiorentini, recitato presso compagnie di un certo spessore, è stato allievo di maestri dell'arte drammatica. Cresciuto all'accademia dei piccoli sotto la direzione di Loretta Bellesi Luzi, nuora dell'indimenticabile poeta recentemente scomparso, Francesco indossa le vesti di veri personaggi che interpreta. Protagonista intorno al duemila del dramma tratto da Novecento di Baricco, passando in seguito a recitare altri ruoli, abbandona Firenze per la città del cinema.

Nonostante questo, l'esperienza teatrale e la propria cultura di fiorentino sembrano accompagnarlo nei suoi impegni presenti e futuri, a cominciare da una serie di film per la televisione, di fiction, e di lungometraggi per il grande schermo. Impegni artistici che lo vedano in primo piano, protagonista come nel caso di alcuni episodi della Stagione dei Delitti, la fiction Rai con Barbara De Rossi, in cui Francesco recita la parte di un ragazzo psicopatico di grande impatto emotivo. Ruoli da protagonista sotto la direzione di autorevoli registi, a fianco a grandi nomi del cinema italiano, come nel caso di Giancarlo Giannini, di Kevin Donovan, per il quale a settembre lo vedremo al cinema nel nuovo film intitolato K il Bandito.

E' stato proprio il regista brasiliano, allievo a suo tempo di Luchino Visconti, a volere l'attore fiorentino come protagonista. Il film, girato a Venezia, i cui ambienti ricordano i colori e le atmosfere di Morte a Venezia del grande Visconti, vede Francesco Grifoni componente di una banda di tempistelli la cui storia si snoda tra i canali romantici della città lagunare. Lo abbiamo incontrato alla vigilia di un'ennesima partenza per Roma per farci raccontare i suoi progetti futuri, il suo lungo apprendistato teatrale, la sua vita quotidiana di giovane cineasta.

Una vita ricca di impegni, vicissitudini, emozioni vissuta tra Roma e Firenze, tra palcoscenici e set, tra copioni e teatri di posa. Insomma, un'esistenza nel solco dell'emozioni, della recitazione, dei ruoli, che fa di lui il ritratto di un attore da "cucciolo".
Hai cominciato come attore facendo una lunga carriera teatrale. Ovviamente il teatro ti è servito come palestra per la recitazione e basta vederti quando reciti, quando ti cali nel ruolo che interpreti, per rendersi conto che la mimica, la postura, lo sguardo che hai acquisito sono il frutto di una lunga esperienza teatrale.

In particolare, ciò che risalta all'occhio dello spettatore e il tuo sguardo, ora ci potresti riferire quanto conta per te lo sguardo diagetico rispetto alla tecnica recitativa?
"Lo sguardo è sicuramente il non detto: vale a dire è la componente di quel minimalismo che comporta il tutto di un personaggio. Attraverso lo sguardo si riesce a penetrare ogni cosa, si osserva l'attimo fuggente. Nello stesso tempo è l'elemento rivelatore del recitante, della drammatis personae, che deve invogliare, suggestionare coloro ai quali si rivolge.

Lo sguardo poi, in relazione ai grandi attori che hanno fatto il cinema, è l'anima che si rivela attraverso gli occhi".
Ma non pensi, almeno sotto il profilo antropologico, che lo sguardo è l'immoralità dell'artista? In fondo, se bene si pensa, lo sguardo o gli sguardi, altro non è che un gioco senza partita, in altre parole un modo di osservare senza partecipazione emotiva, o no?
"Certo, attraverso lo sguardi riesci a celare te stesso calandoti in una parte ma mostrando dei lati della tua persona che nella vita non vorresti mostrare.

Insomma, è un paradosso: una forma di derisione ironica giocata attraverso il fascino. Poi è certamente una componente fondamentale per l'attore di cinema e di teatro".
Quindi, quando sostengo che in te vive uno sguardo teatrale, una reminescenza drammatica, dovuta ad anni e anni di palcoscenico, non sbaglio. Cosa ha rappresentato per te il teatro, l'esperienza drammatica, la prosa?
"E' stata una stagione di vita importantissima. E' stato qualcosa che è riuscito a trattenere in me tutta una serie di ninfa energetica, passione viscerale che avevo in quel tempo.

Ho iniziato a fare teatro per l'urgenza di mostrarmi in tutte una serie di aspetti che non riuscivo ad esprimere nel quotidiano. Conobbi, infatti, una persona splendida Loretta Bellesi Luzi che riuscì a trarre da me l'impegno morale dell'attore, la componente del rito, indipendentemente dalle esperienze biografiche. Insomma, è stata un'esperienza di forma mentis veramente fondamentale".
Stando a ciò che affermi, tu non credi alla tesi dei critici cinematografici che sostengono la morte del teatro a causa del cinema.

Secondo le tue parole, il teatro è sempre vivo, indispensabile, una palestra nella quale un attore è costretto ad allenarsi, o sbaglio?
"Allora: il cinema e il teatro sono impegni artistici che devono sapere comunicare emozioni, a prescindere dal contesto. Emozioni che devono entrare a far parte di colui che ti guarda, che è poi il vero protagonista. Ovviamente il modo di comunicare cambia, per diverse ragioni, a cominciare dai fattori tecnici. Muta perché in relazione allo spettatore, ma l'attore è sempre lo stesso: sono due modi diversi d'espressione artistica, se pur affini.

Il teatro comunque è la palestra di colui che recita, è la vita del corpo. Il cinema, invece, è qualcosa di più silenzioso, è come parlare ad un amico in un bar sapendo che attorno sei circondato da tanta gente. In altre parole, il cinema è un trattenere con la mimica, lo sguardo, e non con il corpo come a teatro, l'emozioni di un ruolo".
Quindi se nel teatro il corpo è vivo, nel cinema muore manifestandosi sotto un'essenza diversa?
"Nel cinema il corpo è più monolitico, meno dinamico.

Nel teatro invece precede per azione, vive in grandi gesti, in modo integrale: è totalmente libero, non prigioniero di primi piani, di soggettive, ed altre componenti".
Dobbiamo dire che nel teatro, da parte dell'attore, c'è un rapporto diverso con la scrittura rispetto al cinema. La scrittura teatrale presuppone un approccio più critico, oserei dire chiuso, completo, nel senso che si tratta di una sceneggiatura compiuta; mentre nel cinema si compone molto spesso sul set?
"Certo! Il teatro presuppone la ritualità, il gesto, la presa in diretta, quindi devi affabulare lo spettatore.

Nel cinema no: tutto deve essere concentrato attraverso l'obiettivo. Come diceva Diderot l'attore è e deve essere null'altro che una macchina: la cui sensibilità rende gli attori mediocri, l'estrema sensibilità gli attori limitati, il sangue freddo e il cervello gli attori sublimi. Pur non essendo d'accordo con certe affermazioni, questo ci fa capire molte cose sul teatro rispetto a quello che è il cinema. L'attore cinematografico è creatività, istantaneità, si sviluppa sul set. Quello teatrale vive invece di una scrittura prestabilita, in relazione alle didascalie che il drammaturgo prevede e non si esprime attraverso i movimenti di macchina".
Che la scrittura cinematografica sia aperta, vale a dire che si forma sul set, basti pensare a Federico Fellini, le cui opere nascevano, al di là dei copioni, proprio nel momento in cui erano girate.

In genere come succedeva ai cineasti neorealisti, non credi?
"Certo! In Roma città aperta di Rossellini, la scena in cui Anna Magnani rincorre il carro dei nazisti nacque da un episodio privato, che accade sul set, tra l'attrice e il marito. Rossellini quindi si ispirò a quel frangente che la sceneggiatura non prevedeva. Poi c'è la questioni degli esterni, molto spesso veri, che il teatro non ha. Insomma, si tratta di realtà simili ma diverse".
Se pensiamo, infatti, a Brecht e a Chaplin, anche se uno apparteneva al teatro e l'altro al cinema, entrambi sembravano costruirsi lo spazio dell'azione.

Erano degli ingegneri dello spazio. Di conseguenza quanto muta e che valenza ha il concetto di spazio per lo spettatore, il regista e per l'attore?
"Il concetto di spazio è importante per l'attore per la questione emotiva. Se ti trovi a correre in un prato di svariati ettari sei consapevole che colui che ti dirige ti limita la corsa in dei paletti diagetici, vale a dire in una cornice. Per il regista è importante, perché per lui lo spazio infinito deve essere elaborato e delimitato dalla sua arte, dalla sua visione.

In ultimo, per lo spettatore il concetto di spazio, secondo me, muta in relazione alla propria emotività, al proprio bagaglio immaginativo e critico. In fondo lo spettatore non vive con lo spazio ma con l'attore, con colui che lo affascina".
Di recente ti abbiamo visto nella fiction La stagione dei delitti e ciò che ci ha colpito è il tuo sguardo, il tuo modo di recitare, ma quali sono i tuoi prossimi impegni?
"Dalla mia entrata al Centro sperimentale di Roma gli impegni si sono moltiplicati.

Sto girando varie fiction per la televisione ma il vero progetto futuro sarà il film di Donovan, K il Bandito. L'esperienza con Donovan è stata molto bella. Tratta di una storia ambientata a Venezia. I protagonisti sono una banda di ragazzi di pasoliniana memoria, che negli anni sessanta, in giovane età, iniziano a rubare sino ad arrivare ad essere degli esperti del crimine. La storia si ispira ad un evento di cronaca. Si tratta di un cinema di inchiesta, nel quale mi calo nei panni di uno di questi ragazzi, un po' nevrotico.

Insomma, si tratta di una storia particolare, molto suggestiva".
Come lo vive il set, con tutte le problematiche del caso, un giovane attore come te?
"Ho avuto modo di lavorare con Giancarlo Giannini e come lui stesso dice l'attore è un ladro di emozioni, vive attraverso un gioco di finzione continua, in cui l'urgenza di recitare da un senso al proprio lavoro, al proprio vagare. Recitando, infatti, posso fingermi medico, ingegnere, avvocato, scrittore".
Vivi a Roma, reciti in tanti set, sotto registi importanti, in teatri di posa, ma cosa ti porti di Firenze, della tua fiorentinità dietro?
"L'ironia malinconica, le zingarate con gli amici, le strade di notte, le luci sull'Arno.

Insomma, il mio modo di essere".
Qual è secondo te la carte vincente dell'artista il drammatico o il comico. In altre parole cos'è che arricchisce di più per chi recita: la commedia o il dramma?
"Essere malinconicamente sorridenti. In altre parole, essere riflessivi e dinamici nello stesso tempo, eclissarsi per ritrovare se stesso, soffermarsi per radunare in te le energie, le risposte alle tante domande che ti fai".
Bene, allora ci vediamo al cinema?
"Certo, ci vediamo al cinema"!
Ed è là che lo aspetteremo, sul grande schermo, tra i canali di Venezia, sedotti dal suo sguardo in un gioco continuo di verità e finzione.
Iuri Lombardi

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