E’ in libreria “Berliner Blues”, un romanzo di Giovanni Bogani
Introduzione di Wim Wenders

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
30 maggio 2003 07:10
E’ in libreria “Berliner Blues”, un romanzo di Giovanni Bogani<BR>Introduzione di Wim Wenders

Esce in libreria – e viene presentato lunedì 9 giugno alle 21.30 alla libreria Edison di Firenze, in Piazza della Repubblica – "Berliner Blues". Edito da Edimond, "Berliner Blues" è il terzo romanzo di Giovanni Bogani, proseguimento dei due precedenti “L.” e “Blu” ( più di 2500 copie vendute).
"Berliner Blues" ha una introduzione firmata da Wim Wenders. Il regista, nell’introduzione, racconta la "sua" Berlino. E’ la prima volta che il regista tedesco accetta di scrivere l’introduzione ad un romanzo.

Lo fa per Bogani, giornalista, che nel 1986 aveva vinto il premio "Ferrero" per la critica cinematografica proprio con un saggio su Wim Wenders. Alla presentazione del 9 giugno, "Berliner Blues" sarà introdotto da Leonardo Tosi e dallo scrittore Marco Vichi. Bruno Casini, esperto di culture musicali, racconterà la Berlino degli anni ’80, tra punk e rock. Giovanni Bogani, fiorentino, 40 anni, è l’autore del “Castoro cinema” su Peter Greenaway ed è il critico cinematografico de “La Nazione”.



Che cosa è "Berliner Blues"
1. Raccontare Berlino. Una città divisa, scissa come il nostro tempo, separata come lo sono, sempre, gli uomini. Berlino città simbolo, specchio di ogni divisione, Berlino città siamese. Da una parte, il mondo in bianco e nero, l’Est. Dall’altra, l’Ovest scintillante, colorato, con i prezzi di ogni cosa. Una città frantumata, come ciascuna nostra esperienza. Bogani cerca di metterla insieme, una nota dopo l’altra, e ricavarne una melodia.

Ma alla fine del viaggio si rende conto di non averla capita completamente, perché le cose non si comprendono mai fino in fondo, le cose non hanno mai fine. Hanno fine le pagine, e la forza di raccontare. Ha fine il tempo che ci concediamo, per disegnare il tempo, in una rincorsa continuamente sconfitta. E come nel blues, non sai mai la nota che verrà dopo.
2. Un lungo blues su Berlino. Una canzone che racconta, da un capitolo all’altro, gli anni ’80, le strade da cui era appena passata Christiane F.

con i suoi quindici anni, e le case occupate, i letti sistemati su piattaforme di legno, i cani lupo che scivolano in quei dormitori rivoluzionari e alternativi. E poi gli anni ’90, il Muro crollato, i Mondiali che la Germania vince e celebra una notte di giugno tra fiumi di birra, e le bandiere del Reich tenute alte sopra la testa. E il nuovo millennio, il futuro in vetrocemento, i mille cantieri con le luci accese nella notte e la neve di un inverno che sembra non finire mai.
3. Un susseguirsi di incontri, in una città che è per molti il centro dell’Europa, della modernità, del futuro.

Paura, e meraviglia, durante infiniti ritorni in una città color Blu di Prussia e grigio piombo delle nuvole. Le file interminabili di gente che dall’Est va all’Ovest, la sera in cui il Muro smette di dividere due ordini diversi di umani. Incontri, quelli del libro, che vanno a costruire un racconto-mosaico, racconti che si incrociano come le linee della metropolitana.
4. I bambini turchi che giocano a Kreuzberg, una bambina siriana che chiede di essere fotografata, una scuola di lingua "alternativa", dove insieme al tedesco si insegna la Rivoluzione, e in mezzo agli anni ’80 la paura dell’Aids che porta via pensieri e trasforma comportamenti.

Berlino: un ragazzo italiano incontrato lì, ritrovato in Italia, perduto per sempre per uno di quei giochi che fa la vita.
5. I ricordi della guerra che spuntano dietro angoli impensabili. E discoteche latine, profughi bosniaci, emigrati armeni, taxisti curdi, una ragazza che va in Mali per dimenticare un dolore, una tedesca bionda con un gran seno e un avvenire da suora, un ragazzo di vent’anni con sulla faccia il sarcoma di Kaposi, una ragazza lituana che sta per essere baciata, e i clerici vagantes di un festival di cinema.

Una storia d’amore appena intuita, sfiorata, afferrata un attimo. E la vita che continua il suo ritmo, oscillare di pendolo tra Italia e Germania, il protagonista sospeso sempre in un altrove, in una lontananza da qualcosa o qualcuno. Lontano da dove vorrebbe essere; da dove si sentirebbe, forse, felice.
6. Un libraio uruguaiano in esilio da trent’anni, una ragazza norvegese che scoppia in risate fragorose e splendide, una donna greca che ha una figlia di sei anni, e gli occhi azzurri come laghi di montagna.

Facce, volti che si susseguono come in un album di figurine. Vengono tutti da fuori, questo è il loro comune denominatore, dagli angoli più diversi di un’Europa inquieta. Nessuno è un “berlinese”. E sono, tutti insieme, Berlino.


La mia Berlino
Wim Wenders


Ho visto Berlino per la prima volta nella primavera del 1962. Ci passammo una settimana con la mia classe di liceo. Era appena pochi mesi prima che venisse costruito il Muro. Berlino era ancora un avamposto dell’occidente in piena Guerra fredda.

Ne fui molto impressionato.
Più tardi, ho fondato là la mia compagnia di produzione, Road Movies. Era il 1976.
Non ho mai vissuto a Berlino, tuttavia, fino al 1984, quando tornai dopo sette anni vissuti negli Stati Uniti. Fu in quel momento che scelsi davvero Berlino, come l’unico posto d’Europa dove volevo vivere. Ci sono rimasto 12 anni, e ci ho girato tre film: “Il cielo sopra Berlino”, “Così lontano, così vicino” e “I fratelli Skladanowski”.
Dapprima, mi colpì quanto fosse strana, Berlino, quando tornai, quasi da straniero, dopo i miei anni americani.

Mi trovavo a vagabondare per settimane: e tutto quello che volevo era raccontare la storia di questa città. Non avevo una storia, né attori. Sapevo soltanto che la città voleva essere raccontata. Nel suo presente, e dalla sua “ora zero”, che nella mia mente era nella primavera del 1945. Questo desiderio di scavare nel profondo dentro la città divenne “Il cielo sopra Berlino”.
Quando c’era ancora il Muro
Berlino, quando c’era ancora il Muro. In quel periodo, se ci stavi troppo a lungo, potevi avere una certa sensazione di claustrofobia.

Ma, in quegli anni, Berlino era anche un posto di straordinarie opportunità, una delle poche città dove potevi fare colazione 24 ore su 24, con musica interessante dappertutto, tutta la notte, scrittori, artisti, musicisti che arrivavano da tutto il mondo a vivere lì, attratti da quella pazza e selvaggia isola di creatività che era Berlino a metà degli anni Ottanta. Io amavo tutto questo. Berlino è stata a lungo la mia città preferita nel pianeta.
Berlino Est
Per me Berlino Est era la Germania.

L’idea di Germania. C’era qualcosa che avvertivo a livello epidermico, molto più a Berlino Est che a Berlino Ovest. Berlino Est era come un viaggio a ritroso nell’infanzia, un viaggio verso la Germania. Là, l’influenza russa non si era radicata come da noi il modello americano. I volti, gli atteggiamenti, i gesti ed il modo di vestire: era la Germania dell’infanzia più remota, del cinema tedesco degli anni Venti. All’Ovest non esisteva già più, ma a Berlino Est l’avevo ritrovata: era quella la Germania.

Ne sono stato profondamente toccato, perché mi sono accorto dell’esistenza di qualcosa che avevo respinto, sentendomi cittadino del mondo.
Le case occupate. Kreuzberg
A Berlino, in quegli anni, c’erano anche le case occupate, le Besetzwohnungen, di cui il tuo libro si occupa. Per me, il periodo nel quale ho vissuto in quel modo è stato alla fine degli anni Sessanta, quando vivevo nelle comuni e nelle case occupate. Nel 1984, quando sono andato ad abitare a Berlino, ho trovato un appartamento a Oranienplatz, nel cuore di Kreuzberg, che allora era il centro del “movimento alternativo”.

Oranienplatz era il punto di incontro per tutte le manifestazioni, e spesso mi accadeva di vedere gli scontri di strada dall’alto, le automobili in fiamme. La polizia chiedeva sempre il permesso di filmare e fotografare dal tetto del mio appartamento, perché era il luogo ideale per sorvegliare i dimostranti. Ma non gliel’ho mai dato.
Quando il Muro e’ caduto
Quando il Muro è caduto, nel 1989, stavo girando “Fino alla fine del mondo”, nel posto più lontano che si potesse immaginare: in una località chiamata Turkey Creek, in Australia occidentale.

Davvero lontano. Nessuna comunicazione col mondo, né radio, né televisione. Era prima dell’era del telefono cellulare, o satellitare. L’unico posto con un fax, per centinaia di chilometri, era una drogheria. Mi mandarono foto di Berlino, via fax, e arrivarono completamente annerite. Si poteva solo vagamente intuire che cosa mostrassero. Sembravano persone che ballavano sul Muro, ma non potevo essere sicuro. E ricevemmo queste immagini con un ritardo di un giorno o due.
Le ho osservate a lungo, quelle immagini, con le lacrime agli occhi; avevo nostalgia, cosa che non mi capita spesso.

Disponevo solo di due sbiadite immagini, nient’altro, che però mi hanno fatto intuire più di migliaia di foto: mi hanno permesso di sognare. Ma avevo davvero paura che nel frattempo fosse già tutto finito di nuovo, e che l’Armata Rossa avesse già messo fine all’euforia…

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