b212101350-vecchioni-canta-l-inno-di-mameli-al-xvi-meeting-dei-diritti-umani

Vecchioni canta l’inno di Mameli al XVI Meeting dei diritti umani

Roberto Vecchioni canta l’inno d’Italia per 8000 studenti delle scuole medie e superiori della Toscana in piedi di fronte a lui.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
10 dicembre 2012 13:50

FIRENZE – Roberto Vecchioni canta l’inno d’Italia per 8000 studenti delle scuole medie e superiori della Toscana in piedi di fronte a lui. “Ragazzi, ricordate che il lavoro è un diritto di tutti voi, tutti avete diritto ad un lavoro dignitoso”, dice, subito dopo aver intonato il testo di Mameli. Paola Maugeri, che divide con lui la conduzione del XVI Meeting dei diritti umani organizzato dalla Regione Toscana, ricorda che la gioventù è passione e sogno e che per questo i giovani devono ‘osare’, per ‘inventare’ nuovi lavori, per uscire dall’ottica dei mestieri tradizionali o familiari ed anche per ‘ribellarsi’ alla generale sensazione di pessimismo. Rivolgendosi ai ragazzi, Vecchioni esorta: “Siate fieri di essere italiani, e di essere cittadini dell’Europa e del mondo”.

Prima di salire sul palco, parlando con la stampa, il cantautore aveva detto: “Dobbiamo dare speranza, dobbiamo superare i momenti critici del passato e del presente. Il futuro immediato si prospetta piuttosto duro, ma penso che lentamente l’Italia uscirà da questa fase e i ragazzi troveranno, secondo il loro merito e secondo i loro diritti, la possibilità non solo di sopravvivere e credere in una società all’avanguardia. L’Italia è all’avanguardia, solo che c’è qualcuno che la tira giù”.

“Io vedo un futuro abbastanza roseo – conclude – il baratro, forse, ce lo siamo lasciati alle spalle”. Tutti in piedi nel Mandela Forum di Firenze per commemorare i due giovani senegalesi uccisi lo scorso anno in piazza Dalmazia. Paola Maugeri, conduttrice con Roberto Vecchioni del XVI Meeting dei ditritti umani organizzato dalla Regione Toscana, ricorda la strage di Piazza Dalmazia e di colpo le voci degli 8000 studenti toscani tacciono. Un minuto di silenzio chiesto alla presenza di Pape Diaw, portavoce della comunità senegalese fiorentina, che sale sul palco insieme a Rosa Maria di Giorgi, assessore all’istruzione del Comune di Firenze, per ricordare quanto accaduto un anno fa e per ricordare che il prossimo 13 dicembre, anniversario della strage, proprio al Mandela Forum si terrà “Jokko! – Firenze Senegal per non dimenticare”, un concerto di artisti africani ed italiani. “Un anno fa – dice Pape Diaw – avevamo detto che volevamo che da quell’episodio terribile nascesse una nuova speranza, per questo abbiamo voluto chiamare ‘Jokko’ il concerto commemorativo che si terrà il 13 dicembre, Jokko è una parola senegalese che singnifica ‘dialogo’ e noi vogliamo riannodare il filo del dialogo che si è interrotto.

Il dialogo è quello di cui abbiamo bisogno, perchè dobbiamo conoscerci per capire le diversità e costruire una vera convivenza. Dobbiamo tornare a sorridere, perchè il sorriso riscalda l’animo e invece noi siamo diventati tristi”. Pape Diaw continua il suo intervento parlando di lavoro, ed in particolare del lavoro di colf e badanti. “A queste donne vengono affidate le persone che ci sono più care, i nonni, i figli, ma quando si parla di diritti vengono sempre fatte distinzioni tra lavoratori italiani e stranieri, invece siamo tutti lavoratori e speriamo di costruire una nazione di pace”.

Anche Rosa Maria Di Giorgi, in rappresentanza del Comune di Firenze, ricorda la strage di piazza Dalmazia: “E’ stata una della pagine più brutte della storia della nostra città. Firenze storicamente è una città di apertura ed accoglienza. A sparare un anno fa è stata ‘una scheggia impazzite di male’, ma non ci si può limitatre a pensare a quell’episodio come al gesto di un folle. Quella pazzia è nata dal razzismo e questo vuol dire che il razzismo c’è e che dobbiamo lavorare ancora di più per diffondere i valori dell’uguaglianza e della solidarietà”. “Il lavoro rende più liberi e se uno è più libero può essere anche più ‘disubbidiente’, soprattutto nei confronti del potere” sottolinea dal palco l’assessore alle promozioni dei diritti umani della Toscana, Riccardo Nencini.

Una disubbidienza positiva. L’assessore lo ricorda ai quasi novemila ragazzi arrivati al Mandela Forum di Firenze ed è l’inizio del sedicesimo Meeting dei diritti umani, quest’anno appunto dedicato al lavoro e al diritto al lavoro. “Con la libertà il lavoro è la parola più usata nel mondo, ma come la libertà ha un diritto di cittadinanza parziale” aggiunge l’assessore. L’impegno deve essere dunque quello a darle una cittadinanza invece piena. Affinché chi lavora sia libero e possa far sentire la propria voce.

“Perché il lavoro gratifica, soprattutto se una fa la scelta giusta”. “Ma per costruire il lavoro di domani ed essere più competitivi – conclude Nencini – occorre impegnarsi oggi: studiando con merito, ad esempio”. Qualunque lavoro uno faccia poi nella vita. Di lavoro – e dell’importanza soprattutto di un “buon lavoro”, di un “lavoro sicuro” e di un “lavoro dignitoso” – ha parlato subito dopo anche l’assessore all’istruzione del comune di Firenze, Rosa Maria Di Giorgi.

“Se non avete bene in testa quello di cui avete diritto, rischiate di farvi fregare – ha ricordato – Nessuno deve lucrare sul vostro lavoro, senza darvi i diritti che vi spettano”. “Il lavoro è tale se contiene dei diritti, ma cosa succede se viene negato anche il primo dei diritti, quello alla sicurezza dei lavoratori dentro la fabbrica e dei loro famigliari fuori?”. E’ con questa domanda che si è congedato dai 9 mila studenti del Palamandela Vincenzo Vestita, dipendente e rappresentante sindacale della Ilva di Taranto.

Nelle sue parole la testimonianza di un lavoro difficile, di un lavoro troppo spesso senza diritti, in quella che ancora oggi è la più grande acciaieria di Europa. “Ricordo ancora la visita medica per essere assunto – ha ricordato Vestita – quel posto di lavoro mi avrebbe consentito di realizzare il sogno che è di ogni ragazzo, comprare una macchina. L’euforia però durò poco. Bastò un giro il primo giorno, bastò vedere l’impianto, con le lingue di fuoco, le ciminiere, i nastri trasportatori.

In questo posto dal 1995 a oggi sono morti 45 lavoratori, molti di loro giovani”. Fino ad arrivare ai nostri giorni, con le due perizie della magistratura che, per la prima volta, hanno accertato il legame tra le emissioni inquinanti e le malattie. “Da allora in parecchi mi hanno chiesto. E tu come fai a scegliere tra la salute e il lavoro? Questa è una domanda che non ci si dovrebbe porre in un paese civile. Eppure questi problemi ci sono sempre stati. Onestamente non so quali soluzioni oggi ci possono essere.

Però so che in altri paesi i problemi sono esaminati e affrontati per tempo, so che si fanno gli investimenti, soprattutto gli investimenti in sicurezza. “Mi sono permesso di andare a Woodstock ed ho ballato anche se storto, ma per poter lavorare, che desideravo enormemente, ci ho messo tanto. Poi alla fine ho fatto lo psichiatria ed anche il politico. E mi sono divertito”. Antonio Guidi, medico, parla del lavoro che appaga e testimonia le difficoltà quotidiane di chi, disabile, cerca ieri come oggi un lavoro.

“Il lavoro è vita – spiega – Da medico ho visto tante persone che, per il lavoro che non trovavano o avevano perso, hanno fatto ricorso alla droga o addirittura si sono suicidati”. Senza lavoro non c’è piena realizzazione di sé. Per questo il lavoro è importante. “La peggior colpa degli adulti che governano – conclude -, ma le colpe non sono solo dei politici perché anche tra certi imprenditori ci sono mascalzoni, è far vedere le cose più complicate di quel che sono. Usate allora il potere che avere per pensare e reagire”. Il lavoro è vita anche per un carcerato: o meglio la possibilità ed opportunità di rifarsi una vita.

“Per chi si trova in un penitenziario il lavoro assume un valore ancora più grande, perché rappresenta lo strumento per rientrare nella società dopo aver scontato la pena” spiega Alessandro Cini, che lavora nella casa di reclusione di Volterra, esperto di problemi carcerari. “Il lavoro e lo studio sono gli strumenti più preziosi per chi sta dentro in vista della fine della pena – dice – . Il carcere di Volterra, da questo punto di vista, rappresenta una pietra miliare perché ospita progetti molto particolari: ad esempio il teatro di Armando Punzo, che dà la possibilità ai detenuti di conoscere il mondo dello spettacolo facendo anche tournée all’esterno, ed il progetto ‘cene galeotte’, che permette ai detenuti di lavorare a fianco di chef.

Lo scrittore Marco Vichi accenna, giù dal palco, al mito del posto fisso. “Nell’Italia di oggi – dice – è sempre più complicato avere un lavoro stabile. Il posto fisso potrebbe essere anche smitizzato, se ci fossero valide alternative. La cosa più bella per l’uomo è quella di guadagnarsi il pane con quello che lo appassiona, ma la condizione minima è un lavoro ben retribuito in cui si è rispettati e in cui non si rischia la vita.” “Germania e Italia sono diverse: da noi la disoccupazione giovanile sfiora l’8 per cento, in Italia svetta oltre il 30” dice Michael Braun, tedesco di Bonn con la Toscana e l’Italia nel cuore, da 17 anni a Roma, presidente della fondazione Ebert Italia.

“Un immigrato di lusso, perché l’ho scelto” scherza. “Ma Germania e Italia, e non solo loro – prosegue -, sono anche uguali: nel lavoro precario e pagato male, per i giovani che studiano per un mestiere e poi fanno altro. Ovunque si guarda ai lavoratori (e soprattutto ai giovani lavoratori) come manodopera da sfruttare e questa è una tendenza assolutamente da capovolgere”. Alessandro Rimassa, 37 anni, blogger e scrittore, conduttore televisivo ma anche consulente, sintetizza invece con un decalogo le parole d’ordine di un mondo che cambia, in cui “è importante costruirsi un lavoro”.

Dieci parole ed altrettanti consigli: intraprendenza, perché serve coraggio, start up, perché sono necessarie anzitutto le idee, progettazione, perché serve anche metodo, e poi ancora condivisione, network e social, perché in un mondo che pure cambia “il lavoro mantiene un suo valore sociale e deve avere un’etica, e quindi sharing, trasparenza, merito (“parola a volte sconosciuta”) ed empatia. Il lavoro certo costa fatica. Un approccio poi non molto diverso da Ennio di Nolfo, professore universitario emerito dell’Università di Firenze.

“Sono un pensionato – aveva raccontato sul palco poco prima il professore – Avevo l3 anni nel 1943, nel pieno della guerra, e 15 anni nel 1945, quando andai al liceo e mi chiesi: cosa farò da grande? Mi dissi che volevo continuare a studiare. I miei genitori mi dissero: sei matto, morirai di fame. Eppure è quello che ho fatto. Il lavoro nasce come fatica, condanna, sforzo a cui l’uomo è condannato per sopravvivere, ma poi diventa affermazione di sé. La società deve offrire la possibilità di lavorare, ma voi fin da ore datevi da fare, perché dalle vostre mani, dalla vostra intelligenza, uscirà qualcosa che darà senso alla vostra esistenza”. Sono stati 8600 i ragazzi e le insegnanti che hanno partecipato quest’anno al meeting dei diritti umani, il sedicesimo organizzato dalla Regione dal 1997, per parlare dei diritti (e dei diritti spesso violati) con i giovani.

Più di ottomilaseicento ragazzi e insegnanti di 110 scuole medie e superiori un po’ da tutta la Toscana e da tutte e dieci le sue province, arrivati a Firenze in pullman, bus e treno. Hanno studiato in classe. Si sono preparati. E riflessioni e idee sono diventate pillole video che hanno preceduto ogni singolo intervento sul palco oppure concetti riassunti su striscioni e cartelloni alzati da un lato all’altro del Mandela Forum. Il meeting si è chiuso poco prima delle due del pomeriggio, con Roberto Vecchioni, conduttore sul palco assieme a Paola Maugeri, che ha salutato tutti intonando “Chiamami se vuoi amore”; canzone che lo ha visto vincere Sanremo nel 2011.

Il meeting si era invece aperto cantando l’inno d’Italia.

Notizie correlate
In evidenza

© 1997-2024 Nove da Firenze. Dal 1997 il primo quotidiano on line di Firenze. Reg. Trib. Firenze n. 4877 del 31/03/99.