“Winter”, la pochezza della sentimentalità contemporanea secondo Jon Fosse

Allestita dal lituano Oskaras Koršunovas al Teatro Fabbricone di Prato, la pièce del drammaturgo norvegese indaga le dinamiche del rapporto fra uomo e donna, alla luce della crisi spirituale contemporanea.

15 marzo 2015 19:40
“Winter”, la pochezza della sentimentalità contemporanea secondo Jon Fosse

PRATO - «L’eterno femminino è irresistibile». Così Goethe nel Faust, a significare il potere del fascino femminile sul genere maschile. A questo assunto immortale, il drammaturgo, poeta, e romanziere norvegese Jon Fosse ha ispirato Winter, un amaro atto unico sull’assurdità, la tenerezza, la crudeltà, l’incoerenza delle relazioni sentimentali contemporanee. Allestito dal lituano Oskaras Koršunovas, la pièce si è avvalsa della presenza sul palcoscenico della connazionale Ruta Papartyte, e del lucchese Marco Brinzi.

L’allestimento pratese s’inserisce in un momento di riscoperta di Jon Fosse da parte del teatro italiano stante la rappresentazione di un suo trittico al Teatro India di Roma, composto da Suzannah, Io sono il vento, e, appunto, Winter; quest’ultima pièce, però, per scelta del regista Vincenzo Manna, vedeva svilupparsi l’incontro/scontro fra due donne, a dimostrazione dell’approccio universale di Fosse alle relazioni umane, a prescindere dal sesso. In una società contemporanea dominata dall’alienazione, dallo stress metropolitano, da una non ancora compiuta e assimilata evoluzioni dei ruoli uomo/donna, una normale relazione occasionale quale quella fra una prostituta e un suo cliente, diviene l’occasione per annullare sé stessi, per testare le proprie capacità di resistenza, per dimostrarsi la propria forza, e per cercarvi un pretesto per rompere con un passato che si è fatto opprimente.

Con questa pièce, Fosse fotografa una società in piena decadenza morale, dove l’uomo si sente oppresso dal peso di una responsabilità familiare che non riesce più a portare, intimorito di fronte alla spavalderia della donna contemporanea, a sua volta spaesata nel ritrovarsi a giocare un ruolo di conquistatrice che, per tradizione sociale, sarebbe spettato all’uomo. His fretus, le relazioni fra i due sessi perdono la componente romantica del sentimento, per diventare banale occasione di contatto corporeo.

Una panchina, in un’anonima e buia zona periferica di un’altrettanto anonima cittadina, è l’improbabile luogo d’incontro fra una prostituta ubriaca, o almeno fortemente alterata, e un riluttante uomo d’affari, forestiero, sposato e con figli, che, in zona per motivi di lavoro, sta recandosi a un appuntamento. Ad adescarlo, il linguaggio scurrile, provocatorio, in bilico fra l’arrabbiato e l’implorante, che la donna (della quale non conosceremo mai il nome, così come per l’uomo), gli rivolge. Dapprima freddo e indifferente, l’uomo, in elegante impermeabile e completo nero corredato di cravatta, si avvicina alla sconosciuta e, forse per gioco, forse per noia, si lascia attrarre dalle sue esibite grazie, dando avvio a una conversazione che trasuda tristezza quanto la fredda pioggia scandinava, una conversazione giocata su monosillabi e frasi tronche, dalle quali si apprende lo status dell’uomo, e la solitudine di una ragazza qualunque.

La panchina diviene così il centro di due scombinati universi umani, che s’incontrano per caso, e che non arrivano a conoscersi.

Una storia che ha il suo seguito in un’anonima camera d’albergo, che l’allestimento scenografico ha optato per rappresentarla soltanto con un bianco letto basso, sul quale i due giacciono dopo un amplesso più o meno furiose. L’uomo, mosso da compassione, ha infatti ospitata la donna nella sua camera d’albergo, e quando rientra, dopo aver mancato l’appuntamento di lavoro, si abbandona a una strana, incondizionata passione per la sconosciuta, la quale prende non poco gusto a quel gioco di seduzione che si è innescato, e strappa all’uomo la promessa di rivedersi il giorno dopo, sulla stessa panchina. Nel frattempo, durante l’assenza dell’uomo, c’è stata una telefonata della moglie, alla quale ha risposto la donna.

Ma il giorno dopo, i ruoli s’invertono: è l’uomo che, seduto, ubriaco, psicologicamente indebolito, attende la donna, un Godot al femminile che però arriva con il suo diabolico fascino femminile. In questa seconda parte della pièce, l’uomo comunica alla donna di aver rotto con la moglie, in conseguenza della telefonata del giorno precedente, e di essersi licenziato dal lavoro. Da qui, la richiesta, quasi una supplica, di continuare a frequentarsi. La donna, ormai paga del successo conseguito, reagisce con una certa riluttanza, eppure, nell’aperto finale, sembra lasciarsi convincere a imbarcarsi in un’improvvisata relazione che, se avrà una durata almeno di medio periodo, sembra doversi sviluppare esattamente come nei due scombinati giorni di frequentazione, ovvero fra dialoghi timidi e freddi, impeti di rabbia, e velate minacce.

Interessante l’interpretazione che Ruta Papartyte dà di questa donna misteriosa, forse sfruttata forse una “libera professionista”, ma comunque con le idee abbastanza chiare sulla precarietà della sua situazione, e come un uccello del cielo vive quasi alla giornata, andando in cerca di avventure per dimostrare a sé stessa di essere libera, e permettendosi di irretire uno sconosciuto per poi stancarsi di lui abbastanza presto.

Un personaggio che, per la tenerezza che l’attrice lituana pone nell’interpretarla, è apparentabile alla splendida Vera Rivken che John Fante tratteggia nel romanzo Chiedi alla polvere. Una donna, quella di Fosse, che comunque non si rassegna alla parte di comprimaria; lo dimostra il fatto che con le arance che l’uomo le ha portato in dono, gioca in maniera fra l’indifferente e il minaccioso, e giunge a schiacciarne una con il tallone, intendendo simbolicamente il suo potere sugli uomini, dei quali può disporre anche la rovina.

Brinzi, da parte sua, dà vita a un uomo intimidito dalla vita e dalla donna, alla quale non sa resistere fisicamente, ma che psicologicamente gli è superiore. L’attore si cala con bravura nella pochezza spirituale dell’uomo medio contemporaneo, zimbello penosamente inconsapevole dell’intelligenza femminile, a sua volta però paradossalmente soggetta a questa pochezza, per mancanza d’interlocutori all’altezza.

La sobria regia di Koršunovas lascia spazio alla personalità dei due attori, i quali, forse, mancano di toccare una corda particolarmente drammatica nei momenti cruciali della pièce, ovvero subito dopo l’amplesso, e nel momento del dubbioso finale. Tuttavia, si tratta di uno spettacolo interessante e ben costruito, che ha meritati gli applausi del pubblico e che, al pari di un racconto di Raymond Carver, lascia allo spettatore un’amara sensazione di perdita, cogliendo appieno quella che è la condizione dell’essere umano contemporaneo.

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