Teatro: alla Pergola "Il nome della rosa"

Il romanzo di Eco, dal 28 novembre al 3 dicembre, nella prima versione teatrale italiana di Massini diretta da Muscato

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
26 novembre 2017 23:33
Teatro: alla Pergola

Il nome della rosa è un omaggio a Umberto Eco nella prima versione teatrale italiana di Stefano Massini per la regia di Leo Muscato, al Teatro della Pergola di Firenze da martedì 28 novembre a domenica 3 dicembre. Un cast di tredici attori dà vita a quaranta personaggi, con una recitazione empatica, colloquiale, quotidiana, per uno spettacolo che, nell’insieme, ha un taglio avvincente.

“Se è vero che al centro dell’opera di Eco – afferma Leo Muscato – vi è la feroce lotta fra chi si crede in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla, e chi al contrario concepisce la verità come la libera conquista dell’intelletto umano, è altrettanto vero che non è la fede a essere messa in discussione, ma due modi di viverla differenti”.

Su uno sfondo storico-politico-teologico, nel momento culminante dello scontro tra Chiesa e Impero sul finire del 1300, si dipana un racconto dal ritmo serrato tra cronaca medioevale, romanzo poliziesco, allegoria e giallo. Una produzione Teatro Stabile di Torino, Teatro Stabile di Genova, Teatro Stabile del Veneto.

Scritto nel 1980 e vincitore del Premio Strega nel 1981, Il nome della rosa, best seller della letteratura italiana, è stato tradotto in 47 lingue e classificato da ‘Le monde’ tra i 100 libri più belli del XX secolo. La sua versione cinematografica è stata diretta da Jean-Jacques Annaud nel 1986, con protagonista Sean Connery. Leo Muscato, che alterna regie di prosa a quelle liriche, ha trovato nel romanzo di Eco una sfida appassionante: al Teatro della Pergola di Firenze, da martedì 28 novembre a domenica 3 dicembre, ne dirige la prima versione teatrale italiana scritta da Stefano Massini. Con Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Bob Marchese, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera e il fiorentino Marco Zannoni.

“Dietro a un racconto trascinante, il romanzo di Umberto Eco – sostiene Leo Muscato – nasconde una storia dagli infiniti livelli di lettura: un incrocio di segni dove ognuno ne nasconde un altro. La struttura stessa del libro è di forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni e la suddivisione di ogni singola giornata in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento (Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta). Ogni capitolo – prosegue il regista – è introdotto da un sottotitolo utile a orientare il lettore, che in questo modo sa già cosa accade prima ancora di leggerlo. Quindi, la sua attenzione non è focalizzata da cosa accadrà, ma dal come. Questa modalità a noi teatranti ricorda i cartelli di brechtiana memoria e lo straniamento che ha caratterizzato la sua drammaturgia”.

La scena si apre sul finire del 1300, nel momento culminante della lotta tra Chiesa e Impero che travaglia l’Europa da diversi secoli. Un vecchio frate benedettino, Adso da Melk, è intento a scrivere delle memorie in cui narra alcuni terribili avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù. Nello spettacolo, questo io narrante diventa una figura quasi kantoriana, sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi e nostri occhi si materializza un se stesso giovane, poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore: Guglielmo da Baskerville. E proprio Guglielmo è stato chiamato per compiere una missione, il cui fine ultimo sembra ignoto anche a lui.

“Quei ricordi si materializzano, diventano corpo e suono. Abbiamo immaginato uno spazio conoscitivo – interviene Muscato – decisamente onirico e ci siamo aiutati componendo una colonna sonora fatta di suoni e melodie semplici, che prendessero per mano lo spettatore e lo aiutassero a seguire i labirinti della memoria di questo vecchio benedettino, così profondamente segnato dai fatti efferati accaduti settant’anni prima e dall’incontro con una fanciulla che non ha mai dimenticato: “Dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo e non seppi mai neppure il nome”. Noi ci siamo divertiti a chiamarla Rosa”.

Il ricordo del vecchio Adso diventa così la struttura portante dell’intero impianto scenico, concepito come una scatola magica in continua trasformazione: una scatola nera e astratta con una serie di feritoie attraverso cui far entrare luci e oggetti con i quali evocare i diversi ambienti dell’azione: una biblioteca, una cappella, una cella, una cucina, un ossario, una mensa. Le video proiezioni hanno la funzione drammaturgica di visualizzare gli stati d’animo dei personaggi che in quel momento abitano la scena. Delle musiche originali, frammiste a canti gregoriani eseguiti a cappella dagli stessi interpreti, contribuiscono a creare luoghi di astrazione in cui la parola si fa materia per una fruizione antinaturalistica della vicenda narrata e alimenta nello spettatore una dimensione percettiva che lo porta a dimenticarsi, per un paio d’ore, del meraviglioso film di Jean-Jacques Annaud.

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