Simone Cantarini, artista del libero pensiero

“Simone Cantarini. Opere su carta agli Uffizi”: una mostra che fa luce su una delle poche figure del Seicento italiano, la cui personalità indipendente si riflette nella sua opera. La mostra, ospitata nella Sala Detti al piano nobile della Galleria, è visitabile fino al 21 settembre 2015. Tutte le informazioni, al sito www.polomuseale.firenze.it.

16 luglio 2015 16:56
Simone Cantarini, artista del libero pensiero
Simone Cantarini - Diana seduta con cane Sec. XVII

FIRENZE - Nel funereo Seicento della Controriforma, annerito dall’incenso chiesastico e dal fumo dei roghi dell’Inquisizione, l’arte italiana subì una drastica involuzione rispetto agli splendori toccati fra il Quattrocento e il Cinquecento con personalità quali Donatello, Leonardo, Cellini, Michelangelo, Raffaello, Piero di Cosimo, per citare soltanto alcuni dei più noti. Si era trattato di un’arte il sentire platonico (introdotto a Firenze da Marsilio Ficino), dell’anima prigioniera del corpo, e dell’ascesi mistica che avvicina al Bello assoluto. Una concezione del Rinascimento, questa, fortemente radicata nell’idea di centralità dell’uomo nella Natura e nell’universo (ma che nel tardo XVI Secolo subirà gravi contraccolpi, mirabilmente fermati sulla tela da Giorgione ne La tempesta).

Il mutare del quadro politico italiano, con l’egemonia spagnola che la pace di Cateau-Cambresis del 1559 aveva ribadita una volta per tutte, aveva significato una netta perdita d’indipendenza da parte delle signorie rinascimentali che avevano costituito il nerbo dello splendore economico, sociale e artistico della Penisola. A ciò si aggiunga che la Spagna era anche il formidabile “mastino” della Controriforma, alla quale, dalla fine del XVI Secolo, la Chiesa di Roma aveva dedicate non poche energie, nel tentativo di arginare, se non di sradicare, la corrente luterana.

Per gli Stati Italiani - fatta parziale eccezione per il Piemonte e la Repubblica di Venezia -, non era facile barcamenarsi nell’equilibrio politico del tempo, nel quale entravano prepotentemente anche le questioni religiose, e la Chiesa cattolica sostenuta da Madrid lottava strenuamente per reimporre un pressoché assoluto controllo sulla cultura del tempo. Vantando un così valido alleato, riuscì nell’impresa, e per l’Italia il Seicento rappresentò un secolo d’involuzione delle arti, del pensiero e dei costumi, che riuscirà a superare soltanto alla metà del Settecento, quando anche sulla Penisola cominciò a soffiare il vento riformista dell’Illuminismo austriaco.

In un clima del genere, l’arte del Seicento, conosciuta come barocca, ha - eccettuati pochi grandi nomi -, soltanto una schiera di cortigiani ligi ai dettami di Roma, pena una condanna che poteva andare dalla censura alla morte sul rogo. Se quest’ultima non interessò i pittori, colpì comunque pensatori come Giordano Bruno, e fu l’ossessione che condusse alla pazzia il Tasso. E ancora, fu per sfuggire a quest’atroce condanna, che Ochino e Carnesecchi scelsero l’esilio. A dominare la scena, furono artisti ligi alla dottrina, quali ad esempio quel mediocre Carlo Dolci che tanto favore incontrò nella bigotta Firenze di Cosimo III.

Tra le figure che seppero comunque conservare una certa libertà di pensiero, unita a uno stile di vita “sopra le righe” al servizio di un talento artistico non comune, ci furono Pietro Testa (1611-50), Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto (1609-64), e Simone Cantarini (1612-48), figure inappartenenti, a loro modo gaudenti sulla scia di Raffaello, aliene dal servilismo che Baldassarre Castiglione aveva elevato ad arte nel suo Cortigiano.

Continuando il percorso avviato con la mostra dedicata a Pietro Testa, della primavera 2013, il Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizi approfondisce la figura del pesarese Simone Cantarini, proponendo una selezione di 42 fra disegni e incisioni. Le sue opere entrarono nelle collezioni fiorentine a partire dal 1673, per interessamento del Cardinale Leopoldo. Una produzione non ancora completamente nota, la sua, e sulla quale la mostra fiorentina contribuisce a far luce, anche aggiornando le attribuzioni. Ad esempio, sul finire del Settecento, all’interno di un gruppo di disegni acquisiti dagli Uffizi, il Pelli Bencivenni ne attribuì due al Cantarini, Nudo maschile disteso e Cristo morto con tre angeli, che però oggi si tende a includere nella produzione di Giovanni Andrea Sirani, pittore bolognese padre di Elisabetta.

Marchigiano di origine, Cantarini respirò l’arte già nella prima adolescenza, quando nella terra natia venne a contatto con la pittura dell’urbinate Federico Barocci, e del veronese Claudio Ridolfi (del quale frequentò anche la bottega), molto attivo in terra marchigiana. Furono questi due artisti ad avviare la sua conoscenza dell’arte del Cinquecento. A ciò si aggiunga una particolare ammirazione per Raffaello Sanzio, la cui aura emerge, nelle opere di Cantarini, nei perfetti ovali dei volti e nelle chiome ricciolute di putti ed eroi mitologici.

Dal 1635 al 1639 frequentò anche la bottega di Guido Reni a Bologna, città all’epoca abbastanza vivace, grazie alla relativa tolleranza dei Bentivoglio. Con Reni, tuttavia, ci fu più di un attrito, a causa della competizione che nacque fra i due (non essendo, Cantarini, un giovane alle prime armi, bensì un artista già affermato), così come per la differenza nella condotto di vita. Motivo per cui, nel 1640, Cantarini lascia Bologna e si trasferisce a Roma per un soggiorno di alcuni mesi, che fu fondamentale per la sua crescita artistica.

Nell’Urbe approfondì la sua conoscenza dell’arte cinquecentesca, e conobbe Pietro Testa e il Grechetto, con i quali s’intese per affinità di carattere. Fondamentale anche la frequentazione degli scapigliati Bentvueghels, i pittori olandesi scesi nell’Urbe per dare un tocco scatenato folklore allo loro scene di genere. Giocatori, donnaioli, goliardici, s’intesero a meraviglia con il Pesarese, nei pochi mesi che trascorse a Roma.

Analogamente a tanti personaggi della sua indole, non ultimo Raffaello, Cantarini morì non ancora quarantenne. Una vita breve, all'insegna di

un’indole libertina, e un carattere non facile (apparentabile a quello di Benvenuto Cellini), che se gli procurò più di una simpatia femminile, gli portò anche più di un’antipatia fra i colleghi pittori, non ultima quella con Reni, per i motivi di cui sopra. Tuttavia, un certo libertinaggio non offusca la sua fama di artista di buon gusto, insofferente alle pose melodrammatiche del Seicento controriformista, aperto invece all’indagine dell’uomo come elemento pensante del vasto Universo.

Le sue scene religiose (un fratello sacerdote gli procurò più di una committenza), non sono mai caratterizzate da quella ieraticità tanto cara a Urbano VIII, bensì discendono in linea retta da Masaccio, Brunelleschi, Botticelli e Michelangelo, alla lezione dei quali aggiunge quella grazia tanto ammirata in Raffaello. Paradossalmente, pur in ritardo anagrafico di qualche decennio, Cantarini è esponente di un Rinascimento aggraziato, quasi anticipatore delle atmosfere settecentesche di Watteau, con il loro sfarzo raffinato, così come delle silenziose tele di Chardin, per la loro elegante semplicità.

È questa la cifra del grande artista, che con pochi sapienti tocchi di pennello, di matita o di bulino, ottiene l’anima del soggetto che vuole rappresentare. La Diana seduta con cane, ricorda nel volto la lezione di Botticelli, mentre l’acquaforte Mercurio e Argo è una leggiadra scena mitologica di gusto classicamente rinascimentale, con la struttura piramidale del gruppo centrale, che ha il suo vertice nella testa del giovane dio. Lo sfondo bucolico, pare estratto da una pagina delle Georgiche, con quell’ombra dei faggi di virgiliana memoria.

La muscolatura di Argo, è caratterizzata da una plastica michelangiolesca, così come le leggera sproporzione delle mani ricorda quella del David. Scena che mantiene tutta la freschezza classica, senza pagar pegno all’ampolloso e accademico stile della bucolica Arcadia, sciagurata fucina di pedanti “ingegni”, che tanto dovrà nuocere alla formazione del letterato italiano.

Caratteristiche non di poco conto, in un clima socio-politico e culturale come quello dell’Italia del Seicento, tetragono all’indipendenza di pensiero, nonché alle istanze di libertà.

Niccolò Lucarelli

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