Roma, gli olandesi, e quel Barocco che sembra il Duemila

Puttane, taverne, bari, zingari, invertiti e lenoni. Nelle pitture di scuola olandese, il variegato e insospettabile universo della Roma popolare del Seicento. O dei nostri giorni? A Villa Medici fino al 18 gennaio 2015. Tutte le info al sito www.villamedici.it.

13 dicembre 2014 23:52
Roma, gli olandesi, e quel Barocco che sembra il Duemila
Simon Vouet - La buona ventura

ROMA - “Gira de qua, gira de là, semo romani volemo canta’ ”. È il verso d’apertura di un antico stornello romanesco, paradossalmente più eloquente di un trattato di sociologia, che con straordinaria onestà, appena sporcata di malizia, traccia il carattere di un popolo, che per estensione è l’italiano tutto, geniale certo, ricco di fantasia, ma forse proprio per questo, sregolato, indulgente al piacere, all’infingardaggine, a quella piacevole distrazione che troppo spesso, comodamente, lascia da parte il pensiero critico.

La Roma papalina del Seicento, stretta fra la pompa dei palazzi nobiliari e i tuguri ammassati sulle eroiche vestigia dei Cesari, certo non brilla nella storia come esempio di stato virtuoso. Addomesticati da secoli a vivere d’elemosine (o elargizioni) papali e cardinalizie, o di quell’industria turistica che l’Urbe ha comunque sempre avuta, mai chiamati a esprimere la loro coscienza di cittadini, tenuti in scacco dalla “paura dell’inferno”, i romani si abbandonavano al lato carnevalesco dell’esistenza, tant’è che l’unico campione di aleatorie istanze di libertà e riforma è stato Cola di Rienzo. E qualcosa vorrà pur significare.

E forse, a ben guardare, non molto è cambiato in quattro secoli di storia. Ma andiamo con ordine. Il Barocco fu un grande macchinario scenico a uso fondale di quel quotidiano teatro che fu la Roma dei Papi. Città dalle magnifiche vestigia del passato, cresciuta sulle fondamenta di un fasto abusivo, delle quali il Barocco all’epoca era appunto l’avanguardia estetica e di pensiero. In mezzo alle misere case del popolo, alle taverne, ai vespasiani, alle botteghe artigiane, sorgevano palazzi d’ineffabile splendore, che tanto più apparivano belli se confrontati con lo squallore circostante.

In quelle sale, nobili e Cardinali ospitavano artisti, letterati, filosofi, e questo mecenatismo d’élite contribuì a fare di Roma, paradossalmente, un importante centro culturale di respiro europeo. Fra i tanti che respirarono l’aria dei Sette Colli, anche numerosi pittori nordeuropei, in particolare olandesi e francesi. E proprio sulle loro tele si sviluppa la splendida mostra I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, curata da Francesca Cappelletti e Annick Lemoine, con la quale l’Accademia di Francia indaga quegli aspetti sociali che l’epopea caravaggesca aveva a torto lasciati da parte, per concentrarsi sulle questioni più strettamente religiose.

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Riuniti sotto il nome di Bentvueghels (Uccelli della banda, a metà fra arte e vita equivoca, una versione ante litteram degli Apache di Belleville o dei Wandervogel di Weimar), questi pittori si gettarono con entusiasmo nella licenziosa vita popolare dell’epoca, frequentando taverne e bordelli, e soffermando il loro sguardo su quel teatro straordinariamente reale. Domenicus Van Wijnen ci dà un’idea abbastanza precisa del loro entusiasmo, incidendo la serie I riti d’iniziazione dei Bentvueghels, immortalati in serate bacchiche nelle taverne della città, al limite dell’orgiastico, fra vino, cibo, sigari, atteggiamenti equivoci, e un certo senso dell’autoironia.

Venendo a raccontare i romani, colpisce per la bellezza scenografica la tavola di Nicolas Régnier, Taverna con giocatori di dadi e un’indovina; punto focale dell’opera, la dama al centro in primo piano, dalla bellezza tipicamente romana, il seno morbido e abbondante, il volto pieno e appena arrossato, la ricca veste di velluto dalle ampie maniche a sboffi. Quasi una dea pagana delle voluttà, forse una cortigiana, forse la compagna del cavaliere alla sua sinistra. Alla sua destra l’indovina, che con gesto sensuale tiene nel suo palmo la mano della dama.

La pelle scura, il seno ugualmente abbondante, ne fanno una figura eroticamente e spiritualmente misteriosa, guardata con sospetto e curiosità. Alla verità del Vangelo, predicata dai pulpiti, a volte si preferisce il paganesimo della divinazione. Sulle stesse corde, La buona ventura di Simon Vouet, dove un’avvenente zingara legge la mano a un giovane popolano, il quale, abbindolato dalle sue parole, non si accorge che una vecchia, complice dell’indovina, gli sta vuotando le tasche.

Si nota il contrasto fra il sorriso malizioso della vecchia, e quello, ben più ingenuo, di colui che ascolta la buona ventura. Le tre figure si stagliano su un caravaggesco sfondo scuro, su cui spiccano le rosse maniche della veste dell’indovina. Con sguardo appena velato di snobistica irrisione, il pittore allegorizza quella distratta mentalità che alligna(va) nel popolo romano e italiano dell’epoca. Eppure, ancora oggi, ci pare di osservare una certa distrazione, questa volta a causa della televisione, mentre malfattori ben più pericolosi delle zingare corrono l’Italia da Nord a Sud.

Fondamentale, nella mostra, il Bravo che fa il gesto della fica, di Anonimo Nordico. Importante non tanto per l’oscenità del gesto, che riproducendo l’organo sessuale femminile era considerato particolarmente offensivo. A dover catturare l’attenzione, è l’animo con cui viene eseguito il gesto provocatorio. Non c’è voglia di ribellione, non è l’irrisione verso la rigidità della Controriforma. Si tratta di uno scherzo. E muovendosi ancora sulla china dei secoli e delle arti, tornano alla mente le amare considerazioni del Marchese Onofrio Del Grillo (diretto dall’indimenticabile Mario Monicelli), gentiluomo papalino del primo Ottocento, che spiega la sua inclinazione alla beffa, con il fatto che a Roma, con il Papa e i Cardinali, si può solo scherzare.

L’ingegno è bandito, e nel Seicento in particolar modo, quando s’incoraggiava l’Arcadia per evitare che a Roma e in Italia si ponesse mente a Cromwell o a Calvino. E nel 2014? Certo, il Papato ha profondamente modificata la sua realtà. E Roma?

Intanto, nel Seicento, le feste carnevalesche degeneravano sovente in disordini e violenze. Jan Both ce ne dà un’idea abbastanza esatta, nella tela Festa e rissa nei pressi dell’Ambasciata di Spagna, un bel quadro di genere che si focalizza sul popolano che, in piedi sul parapetto di una fontana, arringa la folla agitando un mestolo. Forse un’involontaria parodia di Cola di Rienzo, del Papa dei Folli, i soli tribuni che a Roma hanno una platea. Mentre un folto gruppo grida evviva e agita le mani, altri si divertono lottando alla maniera dei greci, a pochi metri da un’antica colonna che giace a terra spezzata. Gira de qua, gira de là

A dare una profondità di verità quasi mistica a questa plebe bonaria e rassegnata, quei personaggi ai margini, sorta di strànnik della tradizione russa, che posseggono il dono della profezia, sono in comunicazione con Dio, e in genere ispirano misericordia anche agli altri. Mendicanti, suonatori girovaghi, zingari, vecchi, colti nella loro condizione di esseri sospesi fra la realtà quotidiana e l’universo onirico. Il Mendicante di Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, sorprende per la curiosa somiglianza con Galileo Galilei, e commuove per quelle rughe profonde che gli attraversano la fronte, e quella veste stracciata di un colore indefinibile.

La Zingara con bambino di Simon Vouet è un dipinto che trasuda una falsa miseria, suggerita dallo sguardo fintamente umile della donna - dove balena un’appena percettibile ombra di malizia -, e dalla veste accomodata con garbo. La figura del bambino fra le sue braccia, nella sua pinguedine risente esteticamente della lezione cinquecentesca del Berruguete.

Ma il Barocco, è votato al sopra le righe, a quell’eccesso che affatica il corpo e la mente. A un certo momento, i Bentvueghels si accorgono di avere bisogno di un po’ di silenzio, e per questa ragione quelle tele che hanno per soggetto la musica classica, sono caratterizzati da un’atmosfera intima e colori tenui. A niente vale stordirsi con alcool e sesso, la mancanza di libertà genera, anche inconsciamente, quella malinconia che incupisce gli animi. In questi volti “tirati a cera” che sembrano sciogliersi alla fiamma di deboli candele, sembrano risorgere gli aneliti dei pochi riformatori che l’Italia ebbe, fra cui Pietro Carnesecchi e Bernardino Ochino, o artisti come Torquato Tasso. Il Seicento controriformista non fu il secolo della libertà, e la musica era vista come un mezzo per dare sollievo alla mente che vagheggiava utopie.

La mostra si conclude sagacemente con una sezione intitolata Roma insolentita: quel gran teatro variopinto ha raggiunto il suo limite, ozio, maschere, giochi, non colmano la vuotezza di coscienze civili mai nate. Ed ecco che Jan Miel nella sua Mascherata, crea l’equivoco rendendo difficile capire se le Guardie Svizzere che passano di ronda, siano anch’esse parte della mascherata, oppure se siano veri soldati della guarnigione papalina. Satira impietosa di un regime dove, hanno scritto tanti viaggiatori stranieri, “il Papa regna, i Cardinali comandano, e il popolo fa quello che vuole”.

Difficile non provare un senso di pietà gattopardesca verso questo popolino condannato a sogni irrealizzabili, e quindi preda di carnevali e pasquinate. Nessun moralismo, certo, verso la licenziosità dei costumi romani dell’epoca; l’umanità è carnale, e anche lo spirito reclama i suoi momenti di pausa. Ma, accennavamo di sopra, come sempre accade nel Barocco, (che non è, si noti, un semplice stile artistico; questo venne in conseguenza di un sentire sociale dettato dall’alto da precise necessità politiche, come lo sarà il Neoclassicismo nella Francia napoleonica), si eccede. Eros e Bacco sono le risposte fisiologiche di una coscienza civile collettiva lasciata vuota per espressa volontà del potere politico.

I lettori ci perdonino una certa schematicità e semplificazione, dettata da ragioni di spazio. Roma, l’Italia, sono anche altro. Intanto, questa mostra colpisce per la sua bellezza eccessiva, dove l’oro chiesastico sporcato d’incenso lascia spazio all’ebbrezza della perdizione.

Una mostra che, forse andando oltre le intenzioni della curatela, se visitata con attenzione può suggerire interessanti riflessioni sul nostro sciagurato Paese, sul modo in cui questa barca che affonda era ed è guardata in Europa. Se ancora oggi un’inchiesta come Mafia Capitale tocca appena le coscienze del Paese, forse questa acquiescenza ha radici lontane.

E ancora, nessuno si chiede se l’Unione Europea guarda all’Italia nell'identico modo in cui vi guardarono i pittori olandesi che nel Seicento ritrassero la plebe romana?

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