Università degli Studi di Firenze
Comune di Firenze

 
GLI INSERIMENTI LAVORATIVI DEI MALATI PSICHIATRICI
NEL QUARTIERE 5 DI FIRENZE

 
Rete di Comunicazione
Nove da Firenze

 
IL RAPPORTO CON I FARMACI, L'ISTITUZIONALIZZAZIONE IL SERVIZIO SOCIALE


Premessa
 
Diversamente dalle variabili finora analizzate, i dati relativi alla percezione e ai vissuti dei pazienti risentono della valutazione in parte soggettiva sia degli psichiatri, che degli assistenti sociali, e sono frutto del racconto anamnestico e di altre parti della cartella clinica, del diario medico, delle cartelle sociali, dei rapporti circa visite domiciliari, dei resoconti degli operatori, dei progetti di inserimento sociale, delle famiglie dei malati.
 
Farmaci
 
Per quanto riguarda l'atteggiamento degli utenti verso i farmaci, parte integrante della terapia psichiatrica, prevale un sentimento di diffidenza, 56 casi, il 30% del campione. Si tratta di diffidenza, il più delle volte dovuta al timore di divenire dipendente e non riuscire più a vivere senza supporto farmacologico. Non a caso 52 persone su 180 manifestano con i farmaci un rapporto di dipendenza, il 28% del campione. Si tratta fondamentalmente, come risulta dalle cartelle cliniche e sociali, di una dipendenza dal punto di vista psicologico, non biochimico, difficile da definire, ma comunque consistente in un'attitudine a considerare il farmaco un elemento indispensabile per la propria sopravvivenza e per rassicurare i familiari circa la propria autonomia e tranquillità. A questo gruppo di utenti segue quello di coloro che individuano nel farmaco un "nemico", qualcosa che li allontana dalla realtà e da se stessi, che cancella parte dell'identità personale, che minaccia l'integrità e la lucidità: "…le medicine mi rapinano, sono stanco e non posso più lavorare...".
L'atteggiamento seguente è quello di fiducia, 25 persone del campione credono nella terapia farmacologia e la vivono in termini di opportunità di gestire la propria vita quotidiana in autonomia, la relazione con le medicine è costruttiva ed equilibrata, costituisce un supporto importante per il benessere psicologico: sono di solito i pazienti più giovani, persone che non hanno mai avuto a che fare con esperienze di internamento psichiatrico.
Dall'analisi delle cartelle, risulta che esiste una forte connessione tra variabile relativa all'atteggiamento verso i farmaci e relazione con il medico. Secondo un'ottica relazionale, "…vanno a comporre il campo terapeutico sia l'atteggiamento psicologico del curante e la sua capacità di rapporto, sia le fantasie del paziente relative al proprio disturbo e al trattamento cui viene sottoposto… la prescrizione e l'effetto del farmaco sono da considerare variabili totalmente dipendenti da questi fattori."
I pazienti che sono dipendenti dai farmaci, sono quasi sempre dipendenti anche nella relazione con il medico, coloro che hanno un rapporto di fiducia nei confronti della terapia farmacologia, sono collaborativi con lo psichiatra e con gli assistenti sociali. Se si porta l'attenzione sulla relazione tra variabile relativa al rapporto con i farmaci e le diagnosi, si osserva che, nella "schizofrenia" e nei "disturbi psicotici", prevale nettamente un rapporto di dipendenza dal farmaco, 39 casi su 52. Nei "disturbi dell'umore" si hanno percentuali quasi uguali di dipendenza e fiducia/opportunità, mentre nelle "nevrosi" si equivalgono casi di "diffidenza" e "rifiuto".
 

Esperienze di istituzionalizzazione e altre strutture di ricovero psichiatrico
 
In questo paragrafo vengono analizzati i percorsi istituzionali ed il tipo di rapporto che i soggetti componenti il campione hanno avuto con le strutture psichiatriche, specie quelle di ricovero.
Le variabili misurano esperienze in istituzioni totali e parziali, generalmente deputate alla custodia di specifiche categorie di individui, per rilevare eventuali esperienze di internamento vissute dai pazienti: orfanotrofi, ospedali psichiatrici, trattamenti sanitari obbligatori, carceri, collegi, case famiglia, centri diurni.
Alcune di queste variabili sono state incrociate con la variabile "diagnosi", per evidenziare eventuali significative relazioni.
Delle persone facenti parte del campione preso in esame, il 17% risulta non aver mai vissuto esperienze in istituzioni totali. Una considerevole parte di questa utenza, invece, risulta aver avuto esperienze di questo genere: nel complesso 67 pazienti su 180 cioè il 38% del totale, con una predominanza di esperienze di collegio nel 14% dei casi, 26 persone su 180. E' necessario specificare che i termini "orfanotrofio" e "collegio", si distinguono in quanto il primo viene utilizzato per indicare esperienze di internamento fin dalla nascita, il secondo per esperienze vissute durante l'infanzia, anche in maniera discontinua.
Altre esperienze di istituzione totale sono per il 9% la casa famiglia, per il 7% l'orfanotrofio e per il 6% l'ospedalizzazione. Il 2% degli utenti ha avuto esperienze di carcere, 3 su 180.
Bisogna tener conto che si tratta di un'utenza piuttosto giovane, il 55% va dai 26 ai 35 anni di età, eppure nonostante si possa pensare il contrario, alla luce dei cambiamenti nelle politiche sociali e nella cultura degli ultimi trent'anni, l'allontanamento dalla famiglia di origine e il ricorrere ad istituzioni totali è una costante nella vita di questi pazienti. Il 30% ha usufruito di istituzioni parziali, i centri diurni. Il 29%, 53 pazienti su 180, è stato affidato a persone diverse dai genitori, il più delle volte per scelta terapeutica da parte dello psichiatra, altre volte per incompatibilità familiari dovute a situazioni di indigenza o incapacità a gestire la malattia, altre per morte di entrambi i genitori. Alla voce "ospedalizzazione", corrispondono tutti i casi di manicomializzazione o trattamento sanitario obbligatorio.
Per quanto riguarda i dati mancanti riferiti a questa variabile, sono stati inseriti nella voce "nessuna", in quanto nella cartella clinica ed in quella sociale il dato non risulta segnalato come "mancante", ma è assente, non viene fatta menzione alcuna circa probabili ricoveri in Ospedale psichiatrico, o trattamenti sanitari obbligatori. Di questo 6%, il 2% risulta ricoverato tra il 1978 e il 1986. Tale collocazione in data successiva alla riforma psichiatrica, riguarda anche la maggior parte di coloro che sono stati ricoverati in case di cura psichiatriche private.
La "schizofrenia", gli altri tipi di "psicosi" ed i "disturbi del comportamento e dell'umore", caratterizzano dal punto di vista diagnostico un'utenza fortemente stigmatizzata dall'istituzione manicomiale, e distribuita , dopo la riforma, in case di cura o in reparti psichiatrici dell'Azienda sanitaria.
 

Servizio sociale e assistente sociale
 
Dai dati analizzati risulta che il 37% dei pazienti, 67 su 180, stabilisce con l'assistente sociale un rapporto positivo: nel 21% dei casi si rileva un atteggiamento di collaborazione attiva, nel 16% di tipo fiduciario da parte dell'utenza.
La relazione del malato psichiatrico con l'assistente sociale è molto condizionata, come risulta dai resoconti delle cartelle sociali, dalle annotazioni degli assistenti sociali e dai diari degli incontri, oltre che dalla malattia in sé e per sé, dal rapporto che si stabilisce sia tra medico e paziente sia tra medico e assistente sociale.
Se tra l'operatore e lo psichiatra sussiste un buon livello di collaborazione ed una buona intesa professionale, il paziente stabilirà con l'uno e con l'altro un rapporto positivo, di collaborazione attiva o di fiducia. Se, viceversa, tali relazioni sono di scarso valore e poco sviluppate, danno origine a rapporti viziati da diffidenza, basati su atteggiamenti di "delega" come nel 20% del nostro campione, "indifferenza" nel 13%, "dipendenza" 11% , "rifiuto" 10% o "conflittualità" 9%.
Su 180 persone analizzate, 113 non riescono ad avere una relazione positiva e quindi attiva con l'assistente sociale: il 63% dei casi facenti parte del nostro campione.
Se ne può dedurre che difficile risulterà la realizzazione e la riuscita di progetti di reinserimento sociale o lavorativo, se alla base di questi manca un rapporto solido, professionale, ma anche di relazione, comunicazione, interazione, emancipazione per la persona con disagio.
"…La "funzione educativa" che inevitabilmente si instaura nel rapporto tra operatore e "utente" ha al suo interno elementi di impossibilità soprattutto se non è basata sul principio del "distanziamento progressivo" e della "restituzione dell'utente a se stesso" . L'inserimento al lavoro è un obiettivo strategico di grande importanza all'interno del quale "assegnazione di ruolo" (per chi si avvia verso il lavoro) o "restituzione di ruolo" (per chi il lavoro lo ha perduto) determinano per l'operatore la grande opportunità di svolgere un'attività riabilitativa ed educativa "a termine"….il rapporto tra operatore ed utente può essere un rapporto realmente educativo basato sul principio del "io ti aiuto fino a che tu non ce la farai da solo" piuttosto che del "tu hai bisogno del mio aiuto per sempre".
 

Un'importanza particolare nella comprensione di come si determinano la domanda psichiatrica e le aspettative verso il servizio, è da attribuirsi, oltre che alle attese del paziente, anche alla figura che richiede il ricovero, o a quella che accompagna la persona al Servizio sociale stesso.
Considerate insieme, queste due componenti costituiscono il cosiddetto "canale d'invio". Questo ha subito una radicale modifica con la riforma del 1978, poiché in precedenza, su richiesta di un familiare o di un medico, attraverso l'Autorità di Pubblica Sicurezza e l'Autorità giudiziaria, il paziente con problemi psichiatrici, veniva ricoverato d'urgenza in manicomio o in casa di cura privata.
Generalmente le persone che oggi accedono al Servizio sociale, lo fanno attraverso la richiesta del medico specialista curante sia del Distretto territoriale, quindi attraverso il Dipartimento di Salute Mentale, sia su richiesta dello psichiatra privato. Questo avviene nel 37 % dei casi: per 69 persone su 180 la richiesta viene inoltrata dallo specialista. Nel 25% dei casi il paziente si rivolge personalmente al Servizio sociale per aiuti economici, per la ricerca di un posto dove vivere, ed ultimo ma non in ordine di importanza, per la ricerca di un lavoro, quindi di una vita indipendente.
Come risulta dalle cartelle sociali e dai diari dei primi colloqui con l'assistente sociale, non solo le persone più giovani fanno richiesta di aiuto nella ricerca di una prima collocazione lavorativa, sono molti gli utenti che hanno perso il lavoro a causa del disagio psichico: "Apparteniamo ad una società complessa e competitiva all'interno della quale a ognuno di noi è chiesto di giocare differenti ruoli e funzioni nei diversi ambiti e momenti della vita…e a qualcuno capita di non farcela, di sbagliare, di arrivare in ritardo, di non avere le risorse o di non avere neppure il coraggio di provare…forse la vita a queste persone ha chiesto prove troppo dure. Il dolore può presentarsi improvvisamente o gradualmente, può andarsene o rimanere in forma acuta o cronica, intermittente. Quando il dolore morde l'anima può capitare di iniziare a spostarsi ai margini di sé stessi e delle relazioni e conseguentemente del sociale nella pluralità delle sue forme, mercato del lavoro inclusa".
Il 20% delle persone del campione accedono al Servizio sociale su richiesta di familiari, prevalentemente dei genitori, anche se non necessariamente arrivano al Servizio accompagnati. Il più delle volte sono i genitori (quasi sempre sono delegate le madri) in un incontro preliminare con l'Assistente sociale a far richiesta per il proprio figlio di aiuti economici, di un lavoro, o di attività ricreative che possano aiutarli a gestire la situazione di disagio familiare quotidiano.
Nel 18% dei casi esaminati, 35 persone su 180, è il medico di famiglia che chiede un intervento di reinserimento sociale per il proprio paziente (spesso si tratta di richiesta indiretta da parte della famiglia): inserimento in centri diurni nei quali trascorrere parte del tempo che altrimenti peserebbe sui familiari, aiuto per la ricerca di una occupazione lavorativa anche a tempo parziale che sollevi la famiglia economicamente, sostegno economico di pazienti che vivono soli e le cui risorse economiche e relazionali sono insufficienti alla sussistenza e/o autonomia.
 

 

E' interessante notare la forte percentuale, il 53% dell'utenza, che arriva al Servizio Sociale per la prima volta senza nessun accompagnamento.
Questo denota come, per problemi pratici del vivere quotidiano che riguardano la propria autonomia, nonostante la spinta di medici o familiari, l'utente si fa carico personalmente delle responsabilità verso se stesso, con il peso di una malattia molte volte difficile da sopportare. Sono 95 su 180 le persone che arrivano al Servizio sociale da sole, questo dovrebbe bastare a dimostrare la determinazione di cui sono capaci. Il 20% del nostro campione, 36 casi su 180, arriva al Servizio accompagnato da parenti, molto spesso fratelli o sorelle dei genitori o cugini. Solo nell'11% dei casi i genitori accompagnano i figli, e ancora, per l'11% sono volontari a farsi carico del problema, 20 su 180.
 

Infine, dall'ultima variabile viene fuori un dato significativo: nonostante una grossa parte di pazienti con il riconoscimento di invalidità: 113 persone su 180 con una invalidità riconosciuta tra il 51% ed il 99%; 82 persone su 180, il 45% del totale, non possiede la dichiarazione di handicap.
Si potrebbe ipotizzare la riconducibilità di tale fenomeno al rifiuto di etichettamento, come si è dedotto dai diari degli incontri tra assistenti sociali e pazienti, ma soprattutto familiari dei pazienti: i genitori, ma ancor di più i fratelli e le sorelle dei malati di mente vivono con angoscia la condizione di esclusione sociale dei loro cari, che, se ufficialmente dichiarata, escluderebbe anche la famiglia, creando sospetto e diffidenza, difficoltà nei rapporti con gli altri, pregiudizio sui luoghi di lavoro.
 

 


 
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