Martial Raysse e il fascino umanistico del contemporaneo

A Palazzo Grassi, la prima retrospettiva italiana del più elegante fra i Nuoveaux Realistes. Fino al 30 novembre 2015. Tutte le informazioni al link http://www.palazzograssi.it/it/mostre/martial-raysse.

18 maggio 2015 14:33
Martial Raysse e il fascino umanistico del contemporaneo
Martial Raysse Inconnue dis-moi ton nom, 2014 Ph: © Matteo De Fina © Martial Raysse by SIAE 2015

VENEZIA - Dicono che la bellezza sia qualcosa che incontri per caso quando guardi fuori dalla finestra appena dopo lalba, e il rumore della città ancora appartiene a unaltra dimensione. Ma forse non è vero, perché alle donne piace alzarsi tardi dopo una notte senza sonno espressiva e ammiccante come una sigaretta fra le labbra di unamante senza scrupoli. Alle donne piace fare colazione a letto con caffè e succo darancia mentre si guardano allo specchio. La luce pungente della mattina avanzata, e lincoerenza delle cose che accadono molto al di qua dellabitudine e della rassegnazione. Notti e giorni di gesti e parole che si accumulano nellincertezza di chiassose coreografie e inutili fatiche. Voi non chiedete che ore sono, e loro vi ignoreranno senza difficoltà.

È questa l’essenza dell’universo femminile contemporaneo, sintetizzata nelle opere di Martial Raysse, in mostra a Palazzo Grassi con la prima retrospettiva italiana dall’emblematico titolo Martial Raysse. Futurologia, 2015-1958/1958-2015, curata da Caroline Bourgeois. La mostra racchiude in circa 350 opere - fra dipinti, sculture, video, istallazioni al neon -, l’avventura artistica di una delle figure più interessanti del gruppo dei Nouveaux Réalistes, del quale fecero parte, fra gli altri, anche Arman, Yves Klein, Niki de Saint-Phalle, e François Dufrêne.

Raysse costruisce un universo femminile in polemica con quella che i Situazionisti chiamavano la “società dello spettacolo”, della quale la donna rischia(va) di essere il bersaglio. Ritratti femminili evocativi nel loro realismo distorto dai colori brillanti che utilizza, ma non per questo meno vero negli sguardi, nelle espressioni del volto, che l’artista immagina critiche contro le luci, insieme avvolgenti e false, del consumismo.

Sia in chiave della Pop Art, come in La Belle Mauve (1962), o in Peinture à haute tension (1965), sia nello stile della maturità, aspramente raffinato che richiama l’affresco romano in Carina ici-bas (1988), o Toulouse-Lautrec in Albane (étude pour Ici Plage, comme ici-bas) (2009), o ancora la Venere d’Urbino di Tiziano in Inconnue dis moi ton nom (2014), Raysse raffigura donne dalla carnalità contemporanea, disinibite quanto basta per essere affascinanti senza svelare troppo, consapevoli di essere molto di più di un semplice corpo fisico.

In questo senso la ricerca pittorico-umanistica di Raysse occupa un suo posto di rilievo nell’arte contemporanea, analizzando e rappresentando la nuova condizione della donna, impegnata a lottare contro la mercificazione del suo corpo, attuata dall’industria dei consumi. L’istallazione Raysse Beach (1962), rifacendosi alla tradizione iconografica delle bagnanti d’impressionistica memoria, presenta la donna al centro di una spiaggia che è specchio del patinato e plastificato stile di vita proposto dalla pubblicità, dalle riviste di moda, dalla televisione.

Life is just a cocktail party on the street. Con questa frase appena provocatoria, ma innegabilmente raffinata, i Rolling Stones (Shattered, 1978) sintetizzavano la nuova concezione della società, basata sull’immagine, sull’atteggiamento, su quell’essere “artificiali” che già Oscar Wilde e Aubrey Beardsley avevano individuato come sovversiva forma d’arte totale già sul finire dell’Ottocento. Si trattava di sviluppare un certo senso critico, di essere “sopra le righe”, di non cedere al qualunquismo,

Un atteggiamento che, fra alti e bassi, ha comunque dominato il Novecento, affermandosi definitivamente con gli anni Sessanta, anche se in una versione riveduta e corretta; la contestazione era, in quegli anni, la forma d’espressione di una modernità che per la prima volta aveva il concetto di giovinezza al suo centro, e portava con sé esigenze estetiche e materiali quasi del tutto nuove. Anche se attorno agli anni Settanta la tendenza degenerò nell’ipocrisia dei cosiddetti radical-chic, ciò non toglie che almeno all’inizio una certa coerenza d’idee e comportamenti anche artistici, procedesse in parallelo con una reale rappresentazione critica della società, prima che l’arte diventasse una mera questione di mercato. Altri tempi.

Attraverso la creazione di un’estetica dai colori vivaci che guarda a numerosi maestri del Passato (da Tiziano a Toulouse-Lautrec e Rousseau, da James Ensor a Frida Kahlo, da Henri Matisse a René Magritte), il francese Martial Raysse (1936) si fa cantore di un’arte squisitamente umanistica, che induce l’individuo alla consapevolezza di avere un proprio ruolo nella realtà circostante, che comporta diritti e doveri verso l’intera comunità, in anni, i Sessanta in particolare, in cui per un attimo si sperò di cambiare il mondo.

Quel ruolo, era quindi particolarmente importante, e ancor più che per i Decadenti, avrebbe dovuto avere una sua coscienza critica. Con l’avvento di un relativo benessere, e soprattutto con il radicalizzarsi degli atteggiamenti ideologici, seguito nel decennio successivo da una fisiologica indifferenza non ancora del tutto scomparsa, la critica di pensiero si è molto spesso ridimensionata in atteggiamento formale disimpegnato, sintomatico di una decisa ricerca del benessere materiale.

L’edonismo reganiano - di cui Bret Easton Ellis è stato intelligente narratore nello splendido American Psycho -, ha segnato l’apice del nuovo stato di cose.

Consapevole di quanto la banalizzazione consumistica di massa rischiasse di ridimensionare la portata del senso critico individuale, Raysse s’impegna in un’arte di denuncia della povertà che caratterizza l’immaginario quotidiano dell’individuo medio, i cui sogni prefabbricati dall’industria rispondono ai nomi di questo o quel prodotto. Sulla scia di quanto accaduto al tempo della Neue Sachlicheit tedesca, la scultura “pubblicitaria” Étalage, hygiène de la vision (1960), dove la sagoma di grande formato di una donna è appoggiata su uno scaffale pieno di generi di consumo, è vicina per concetto, più ancora di Le Nécessaire de toilette (1959), alla Tavola da toeletta (1926) di Herbert Ploberger. A indicare come la pittura realista engagée abbia sempre avuta una sua valenza sociale, contrariamente alla “celebrativa” Pop Art, che nasceva in quello stesso scorcio d’inizio anni Sessanta.

Il consumismo non fu certamente l’unico volto di quel decennio, che vide appunto il dilagare dell’impegno civile, e della contestazione giovanile. Icona di quel nuovo sentire, nonché oggetto dell’attenzione dell’industria della produzione di massa, è la donna, in questi anni al centro di importanti battaglie per la parità di genere. Raysse, collega di Niki de Saint-Phalle, guarda con favore all’evoluzione dei costumi, ma comprende anche il rischio di una massificazione indotta dal consumismo.

In reazione a ciò, costruisce una galleria iconografica femminile dai colori sgargianti, alla cui base sta uno sguardo venato d’umanesimo lievemente angosciato: come nel tardo Cinquecento manierista, i ritratti di Re, Papi, Imperatori, e semplici contadini, raffigurano individui che si muovono in un universo del quale non sono più al centro, così la donna di Raysse è la protagonista di un universo colorato eppure macabro, dove accanto alle luci, si percepisce la difficoltà di trovare una propria dimensione.

Negli anni Sessanta, così come nel Duemila.

Niccolò Lucarelli

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