La Belle Èpoque sardonica di Toulouse Lautrec

Dopo Amedeo Modigliani, la città di Pisa celebra un altro artista “maledetto”, simbolo di un’epoca che illuse l’Europa. A Palazzo Blu, Lungarno Gambacorti, fino al 14 febbraio 2016. www.toulouselautrec-pisa.it.

15 ottobre 2015 18:24
La Belle Èpoque sardonica di Toulouse Lautrec
Henri de Toulouse Lautrec - Jane Avril, 1893

PISA - Assenzio, prostitute e can can. Henri de Toulouse Lautrec ha raccontato il lato sardonico e triste degli anni folli della Parigi di fine Ottocento, quelli i che segnano il volto di rughe e cicatrici, che deturpano l’anima fin nel profondo, lasciandosi dietro cenere e ricordi. Un destino in fondo voluto, cercato, amato, sia per una certa affinità con la vita inimitabile dei Decadenti, sia perché logica conseguenza dell’aria che si respirava in quella fine d’Ottocento che vide l’Europa a una svolta cruciale della sua storia, incalzata da un lato dal progresso tecnologico e scientifico - sono di questo periodo, ad esempio, le teorie di fisica quantistica di Planck che apriranno la strada alla teoria della relatività di Einstein, così come l’automobile, i cibi in scatola, il telefono-, e da un clima politico particolarmente caldo dall’altro; un viscerale antisemitismo serpeggia nel Vecchio Continente, rinverdito dall’affaire Dreyfus, la politica colonialista assoggetta senza scrupoli i continenti asiatico e africano, mentre le inimicizie dei secolari Imperi Centrali danno fuoco alle polveri nella regione balcanica.

In poche parole, si stanno gettando le basi per quell’instabilità politica e sociale che segnerà il secolo successivo. Si respira una certa ebbrezza, in particolare a Parigi, capitale culturale europea, ma anche città di riferimento per le novità tecniche; qui nasce il cinema, qui si sviluppa la metropolitana, qui si erge la Tour Eiffel, e l’Esposizione del 1889 richiamerà decine di migliaia di visitatori. La comunità artistica, che capo principalmente agli Impressionisti, è vivace e trasgressiva, utile scuola per coloro che saranno gli alfieri delle Avanguardie: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, verranno a Parigi Picasso, Camarasa, Modigliani, per citare solo i più noti.

Si uniscono con piacere ai parigini, nei baccanali della vita notturna, che si concentrava a Montmartre, l’antica Mons Martis, e in tempi più recenti ricettacolo di comunardi, prostitute, borseggiatori, ballerine, artisti di strada. Una miscela esplosiva, l’ideale per “celebrare” il nuovo corso. Molti ne videro soltanto le luci. In realtà, dietro di esse, strisciava un’angoscia che avrebbe segnata l’Europa.

Toulouse Lautrec. Luci e ombre di Montmartre, curata da Maria Teresa Benedetti, racconta l’avventura artistica di colui che, paradossalmente, fu l’outsider della Belle Èpoque, attraverso più di 180 opere suddivise fra l’intera raccolta dei manifesti da lui realizzati, numerosi disegni, e una selezione di dipinti, oltre a una ristretta scelta di dipinti di autori contemporanei, fra cui Zandomeneghi e Bonnard, un confronto utile per comprendere pienamente la sostanza della pittura di Lautrec, ricca di intuizioni non soltanto stilistiche, ma anche e soprattutto concettuali.

Di antica e nobile famiglia albigese, non ebbe però una vita facile: due cadute da cavallo gli causarono la rottura e la deformazione dei femori, con conseguente arresto della crescita degli arti inferiori. A ciò si aggiunse una salute cagionevole, che incupì viepiù un carattere già di per sé non molto espansivo, stanti anche le freddezze degli affetti familiari, a esclusione della madre, che gli fu vicina fino all’ultimo. Una vita sregolata fece il resto, così da portarlo alla prematura scomparsa nel 1901, ad appena trentasette anni.

Una vita breve ma intensa, la sua, solitaria e mondana insieme, che indulgeva nel vizio non soltanto per fisiologica manifestazione dell’ebbrezza della gioventù, ma anche e soprattutto per annegarvi le sofferenze fisiche e morali. La sua formazione artistica si compì a Parigi, negli atelier di Princeteau prima, e di Bonnat poi, che frequentò a partire dal 1881. Stabilitosi definitivamente a nella capitale tre anni più tardi, abita proprio a Montmartre, dove è assiduo frequentatore dei locali notturni.

Un punto di vista privilegiato per raccontare le follie parigine di quegli anni, un universo scalmanato dove si allentavano i costumi, certo, ma anche si abbrutivano e si consumavano esistenze, dove imperversavano il vizio e le malattie.

La Belle Èpoque è per Lautrec un fatto viscerale, che la congenita timidezza e i guai fisici gli impedivano di godere appieno.

Cinque le sezioni della mostra, tematiche e non cronologiche, per accompagnare il pubblico nella pittura di Lautrec; si comincia con Montmartre e gli artisti del varietà, come Jane Avril e la Goulue, locali come il Moulin Rouge, il Divan Japonais e l’Hippodrome, dove assenzio e champagne scorrevano a fiumi, e i camerini erano luoghi per appuntamenti galanti. Fino alla Prima Guerra Mondiale, saranno gli anni d’oro di Montmartre. La seconda sezione è dedicata al mondo del teatro, con quadri e litografie dei loro interni, degli interpreti dell’epoca come l’immensa Sarah Bernhardt, degli spettacoli più in voga come La Gitane di Richepin.

La terza sezione è dedicata al manifesto pubblicitario, un genere che Lautrec elevò a opera d’arte grazie alla delicatezza dei colori, alla finezza del disegno, alla capacità di stintesi fra immagine e messaggio, con lui, l’estetica entra nel mondo della pubblicità. Significativa come spaccato di un’epoca e di una società, la sezione dedicata alle case chiuse, che ospita la serie di undici litografie a colori, dal titolo emblematico Elles (1896), eleganti immagini che descrivono momenti di vita intima di ragazze che per scelta o costrizione esercitavano un mestiere tanto apertamente condannato quanto tacitamente approvato dall’ipocrisia della società, dell’epoca e non solo.

In chiusura, la quinta sezione è dedicata alla Parigi di quegli anni, episodi di vita vissuta come una gita in campagna, le corse dei cavalli, gli approcci con le ballerine.

Ma l’importanza della pittura di Lautrec non sta soltanto nel suo valore documentario della Parigi dell’epoca; a livello stilistico e concettuale, anticipa buona parte dell’Avanguardia europea più disperata del decennio successivo, quella, per intendersi, legata a Vienna e Berlino. Dalle folle danzanti di Lautrec, immerse nelle luci sfavillanti, si sprigiona una solitudine persino più tetra di quella che caratterizzerà le donne di Gustav Klimt e i reduci di guerra di Otto Dix. Ma a colpire, in Lautrec, sono quei volti sardonici, con sorrisi che sono amare pieghe di disprezzo, verso sé stessi come verso gli altri.

Una mollezza simile all’inedia, ad esempio, accompagna Yvette Guilbert in Chanson Ancienne, litografia del 1898; gli occhi semichiusi e il sorriso smorto, lasciano immaginare la stanchezza che coglie dietro le quinte, dopo aver eccitato per mezz’ora un intero pubblico. Espressioni che sono ghigni beffardi, e che più tardi ritroveremo a Vienna e Berlino, appunto. Nella loro fase matura, Klimt e Kokoschka si avvicinarono non poco alla lezione di Lautrec, fissando sulla tela corpi e volti disfatti, amplificando l’esperienza espressionista, e riflettendo quel clima angoscioso che permeava l’Europa del tempo.

Le donne di Lautrec, cantanti, ballerine, prostitute, borghesi, non sono mai caratterizzate da particolare sensualità o bellezza, assai raramente sorridono con dolcezza, ben più spesso accennano una smorfia. Lautrec esce dall’accademia, o comunque da un’idea di donna convenzionale, che ancora compare nella pittura, ad esempio, di Boldini e Zandomeneghi. Quest’ultimo, nel dipinto Le thé (1890-93), ritrae tre donne eleganti, dalla carnagione chiara, i corpi morbidi, assorte in piacevole conversazione al tavolo di una sala da tè, appunto.

Per quanto bello, il quadro non possiede quella tensione che anima quelli di Lautrec, che intuisce l’apparire della donna moderna, meno angelica e più mascolina di quanto vorrebbe la morale patriarcale. Le sue ballerine sono fatte di carne, guardandole si percepisce il movimento delle gambe, il profumo di cipria della loro pelle, il fruscio della seta dei costumi; atmosfere ben diverse dalla pensosità delle tele di Degas. E le sue prostitute, lungi dall’essere ragazze perdute, sono in realtà esseri umani che la sventura ha sovente precipitate nel vizio, ma non per questo hanno perduta l’innocenza; lo si comprende osservandole nei piccoli gesti quotidiani in cui le ritrae Lautrec, al momento del risveglio, della colazione, dell’igiene intima, della pettinatura.

Ragazze che si prendono cura di sé come ogni altra, ma sole più di altre, in un certo senso emarginate. Anche per questo, non disprezzava la loro compagnia, e passava lunghe ore a ritrarle sul “luogo di lavoro”.

Fra le tante donne che conobbe (pochissime delle quali riuscì ad avere), Lautrec nutrì un affetto particolare per Jane Avril, la star del varietà dell’epoca, della quale lo inteneriva la difficile storia personale, nella sostanza simile alla propria: figlia di una madre alcolizzata che morì suicida, la Avril visse nella dura povertà, ma riuscì contro tutto e tutti a coltivare la passione e il talento per il ballo, grazie al quale riuscì a rifarsi una vita. Lautrec stesso aveva lottato contro il destino che si era accanito su di lui, aveva vinto le proprie difficoltà fisiche, aveva imposto alla vita il suo volere. Eppure, non si sentì mai un vincente, sapeva che il fisico meschino lo esponevano a derisioni (seppur nascoste), e gli preclude davo l’amore delle donne. Per questo, nonostante nobiltà e ricchezza, si sentì sempre vicino agli umili, agli emarginati, al popolo di Montmartre che sprofondava nel vizio e nell’abiezione. Per dimenticare.

A differenza, ad esempio, di Boldini, cantore dei fasti aristocratici della Belle Èpoque, Lautrec riserva i suoi colori per il popolo, i localini equivoci da esso frequentati, l’armonioso e febbrile frastuono del can can, che rivivono nei manifesti colorati, siano essi dedicati a Jane Avril o Aristide Bruant, ritratto con una cert’aria di braveria datagli dalla sciarpa rossa spavaldamente gettata al collo.

La stupenda mostra pisana, che giunge dopo un periodo di scarsa attenzione su Toulouse Lautrec, permette di entrare nella poetica artista di colui che fu grafico e pittore, ma soprattutto cantore di un’epoca della quale ebbe la sensibilità d’intuire le miserie umane: il vizio era una forma di disillusione per le classi più povere, e uno strumento di controllo su di esse, per le classi più elevate. Fra le note sfrenate del can can, serpeggiava la stessa febbrile voglia di distruzione che prima si era sfogata, ad esempio, nell’antisemitismo, e poi si sfogherà sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale; l’umanità è mossa dall’istinto della violenza, dell’abiezione che porta a ubriacarsi fino a picchiare una prostituta, non troppo diverso dal nazionalismo che porterà alla mobilitazione del 1914.

La Belle Èpoque fu un’illusione, le sue luci erano false. Lautrec lo aveva intuito, eppure la sua forza morale era tale, da fargli dire: «Siamo brutti, ma la vita è bella».

Niccolò Lucarelli

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