Il calcio italiano deve costruire il suo domani

Massimo Cervelli, giornalista e storico del calcio, interviene nel dibattito sull’eliminazione dell’Italia dai Mondiali e propone alcune ipotesi di rinnovamento del sistema

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
16 novembre 2017 20:17
 Il calcio italiano deve costruire il suo domani

di Massimo Cervelli

Erano sessant’anni, dal 1958, che l’Italia non si qualificava alla fase finale dei Mondiali. Era un’altra storia, anch’essa tipicamente italiana, fatta di sottovalutazione degli avversari (l’Irlanda del Nord, che poi arrivò ai quarti di finale), approssimazioni organizzative (nella doppia trasferta di Belfast), furbizie (gli oriundi in campo, tra cui Ghiggia, campione del Mondo 1950 con l’Uruguay che si fece espellere a venti minuti dalla fine), ignoranza su come fosse percepito il calcio italiano all’estero (fiale che simboleggiavano il doping e campioni strappati al Sudamerica).

Di quell’esperienza resta viva l’invettiva di Giulio Onesti, presidente del CONI: “Oggi, noi ci facciamo ridere dietro da mezzo mondo, come i ricchi scemi del calcio” - il calcio era governato dagli industriali dell’epoca, gli inossidabili Agnelli alla Juventus, Angelo Moratti all’Inter, Rizzoli al Milan...

Quella lezione non servì al calcio italiano: in Cile, nel 1962, ancora a causa degli oriundi, subimmo la pesante ostilità dei padroni di casa, che ci eliminarono in un match drammatico; in Inghilterra, nel 1966, fummo eliminati dalla Corea del Nord, squadra con cui credevamo bastasse scendere in campo per vincere.

Bisogna avere il coraggio di guardare dietro il risultato sportivo, la doccia svedese, per capire se sia la conseguenza di semplici errori tecnici, e/o tattici, o parta da molto più lontano. Nel 2010, e nel 2014, l’Italia è stata eliminata nei gironi dei Mondiali, da avversari non irresistibili: Paraguay e Slovacchia; Costarica e Uruguay. All’indomani del fallimento brasiliano Abete e Prandelli si dimisero. Oggi restiamo fuori da una Coppa del Mondo a 32 (!) squadre.

Allora, il calcio italiano scelse (?!) Tavecchio e la sua prima mossa fu blandire l’opinione pubblica sportiva assumendo, in partnership con la Puma che “sponsorizzava” l’ingaggio, Antonio Conte, reduce da tre scudetti consecutivi con la Juventus, ma anche da una squalifica per “omessa denuncia” relativa a un caso di calcio-scommesse.

S’isolava la panchina della Nazionale dal sistema calcio (assenza d’investimenti dei club nei vivai, a differenza di altri paesi, dove sono consolidate le Accademie giovanili; assenza di una promozione nelle scuole del calcio e dello sport, ritardi della FGCI nello sviluppo dei centri federali, che solo ora stanno partendo; mancanza delle seconde squadre che permettano ai giocatori della “Primavera” di crescere confrontandosi con campionati veri di serie C, per fermarsi ai più evidenti).

Conte riuscì a fare un capolavoro: convincere che la qualificazione agli Europei, per la prima volta a ventiquattro squadre, fosse un risultato clamoroso e che noi, molto deboli, ce la giocheremo con la grinta e l’organizzazione che lui darà alla squadra. L’eliminazione ai quarti di finale, dopo i calci di rigore con la Germania, fu salutata come un trionfo, eppure, per quello stesso risultato, nel 2008, Donadoni, eliminato ai rigori nei quarti dalla Spagna che poi vinse il titolo, venne cacciato e Prandelli, sconfitto in finale nel 2012, addirittura contestato … grande è la potenza dei media e degli allenatori che li sanno portare dalla propria parte.

Conte lascia una squadra spremuta, nei suoi due anni non ha costruito il futuro, ha pensato al risultato immediato. La rosa utilizzata ha un’età media di ventinove anni, ma, soprattutto, l’Italia non è testa di serie per le qualificazioni alla Coppa del Mondo, essendo, al momento del sorteggio, 25 luglio 2015, diciassettesima nel ranking. Ed è questo l’elemento, spesso taciuto, che sta alla base dell’attuale eliminazione: il girone con la Spagna rendeva proibitiva la qualificazione diretta.

Su Ventura è stato detto tutto, ma due elementi vanno sottolineati, perché possono tornare utili in futuro. Il primo è che la Nazionale deve avere, indipendentemente da chi siede in panchina, dei tecnici federali e non può essere soggetta allo stress dei cambiamenti prodotti dai vari staff che si succedono con il cambio dell’allenatore - Prandelli portava il suo, Conte uguale, Ventura pure. Si potrebbe anche andare più lontano dicendo che in passato abbiamo ottenuto grandi risultati con allenatori della federazione (Valcareggi, 1968 e 1970, Bearzot, 1982, ma anche 1978 e lo stesso Vicini). Insomma, basta con ingaggi milionari su quella panchina!

Il secondo riguarda il rapporto con i “veterani” che tanto piacciono a stampa e pubblico e che sono spesso l’elemento che mina dall’interno la costituzione di un nuovo gruppo. Sono di pubblico dominio gli scontri tra loro e Ventura, anche per questioni poco nobili, come i due allenamenti al giorno. Con la sfiducia non si governa, neppure in campo, e quando tecnico e giocatori battono strade diverse, il fallimento sportivo è dietro l’angolo. I “veterani”, quelli che sanno piangere, campioni del Mondo, nel 2006, come Buffon, Barzagli, De Rossi, certo, ma anche responsabili delle doppie eliminazioni del 2010, maledetta vuvuzuela, e del 2014: non sarà che la Fornero, con il ritardo pensionamento, abbia fatto danni anche al calcio italiano?

Tornando al campo c’è da dire che la Nazionale non poteva essere salvata dai due elementi forti che hanno caratterizzato la serie A negli ultimi anni: il gioco del Napoli, nove stranieri nella formazione base, non poteva essere travasato, mentre la difesa che ha fatto grande la Juventus appartiene ormai al passato.

Il calcio italiano non è sano, continua ad aumentare il fatturato, ma all’aumento degli incassi corrisponde un aumento dei debiti. La soluzione è, se la si vuole trovare e perseguire, nel movimento calcistico: significa rimettere il pallone, e il gioco, al centro. Non siamo i soli a dover affrontare questo problema, la Germania lo ha dovuto fare prima di noi e oggi è protagonista in tutte le competizioni. La federazione tedesca ha aperto tanti centri coordinati sul territorio; dal 2001 i club di Bundesliga, prima e seconda, devono avere un Accademia giovanile e squadre per ogni categoria di età, dagli under dodici; la Germania ha anche uno ius soli che in Italia viene assurdamente osteggiato; ci sono percorsi di studio adattati ai giovani che giocano (su questo si è mossa anche la FIGC); a partire dagli under sedici in ogni squadra ci devono essere almeno dodici giocatori convocabili nelle rispettive nazionali; le seconde squadre possono giocare in terza divisione.

Non si tratta di copiare, ma di definire una propria strada imparando anche dalle esperienze di altri, comprendendo che i problemi del sistema, anche nel caso del calcio, non si risolvono con leader taumaturgici (Ancelotti?), ma costruendo, e educando, in profondità.

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