I 20 anni di Nove da Firenze

Due decenni di esperienza nel bello e nel cattivo tempo del World Wide Web

Nicola
Nicola Novelli
16 gennaio 2017 01:01
Video di ZaniChesi

di Nicola Novelli,

fondatore di Nove da Firenze

Venerdì abbiamo festeggiato i 20 anni di Nove da Firenze, dal 1997 il primo giornale web fiorentino. Ospiti di Burde, lo storico locale in via Pistoiese abbiamo presentato il nostro Calendario on line 2017, sesta edizione dell’ennesimo progetto gratuito per i nostri lettori, quest’anno dedicato all'Associazione Esercizi Storici Fiorentini, sulla base della proposta del fotografo Alessandro Rella, che lo ha realizzato. Con la presenza di grande prestigio del Presidente del Consiglio regionale toscano, Eugenio Giani.

E’ stata l’occasione per una riflessione sulla nostra esperienza di Internet, grazie a un archivio di notizie che ormai supera ampiamente le 100.000 pagine pubblicate, con decine di migliaia di foto e migliaia di video. Un patrimonio che ogni giorno l’associazione dei redattori, che edita il nostro giornale, regala alla città e al territorio.

Sono stati anni pionieristici, con momenti difficili e di esaltazione, dalle prime visite dei lettori, che nei primi mesi del 1997 non superavano qualche centinaio al giorno, sino alle oltre 10.000 nel giorno medio nella seconda metà degli anni 2000. Oggi la battaglia per l’informazione locale si è fatta più difficile, è aumentata la concorrenza, in un territorio come la Toscana dove operano ormia più di 100 siti di informazione on line. E di questo non ci lagniamo, poiché siamo convinti che sia una ricchezza collettiva, in una regione che dell’Internet italiano è sempre stata avanguardia.

Ci preoccupano piuttosto -e da tempo- due fenomeni globali che condizionano e condizioneranno in modo crescente lo sviluppo del Web, a meno che l’opinione pubblica internazionale non decida di interessarsene e di por rimedio a questi rischi emergenti: il primo, ormai all’attenzione del dibattito, dopo le elezioni presidenziali USA, la diffusione di false notizie e di campagne occulte di disinformazione, la seconda la tendenza del traffico on line a concentrarsi in pochi siti, segnatamente quelli delle multinanzionali californiane che, almeno in Occidente, controllano di fatto Internet.

Nel primo caso, finalmente, la stampa Statunitense ha preso a occuparsi dei condizionamenti che l’attività di cyber-propaganda di alcuni siti vicini al Cremlino potrebbero aver provocato sull’elettorato USA al momento della scelta del prossimo Presidente. Molta attenzione è stata finalmente dedicata al ruolo passivo che hanno giocato i social network, segnatamente Facebook, nel permettere che tante “bufale” potessero diffondersi senza alcun filtro.

Da tempo nel nostro piccolo (e pure nell’attività in seno all’Ordine dei Giornalisti) cerchiamo di accendere i riflettori sul rischio che questi grandi distributori dell’informazione finiscano per favorire la diffuzione di contenuti mistificatori, che in quanto eclatanti suscitano attenzione e dibattito, tanto più se riprovevoli, o controversi. Il pubblico più ingenuo, incapace di distinguere tra vero e verosimile, è attratto da argomenti forti e ingaggiato nei commenti finisce per trattenersi di più nella cornice del social network, che così ottimizza il proprio fatturato pubblicitario. Come dire: più colpi di scena (non importa se falsi, o autentici), più permanenza del pubblico e più spazio alla pubblicità.

Eppure questi colossi della rete, con la potenza dei loro algoritmi avrebbero tutti gli strumenti per arginare la cattiva informazione, segnalandone la qualità ai lettori meno avvezzi, o quanto meno evitando di promuoverla, come sinora hanno fatto, recapitandola su tutti profili a fini commerciali, grazie al lavoro di algoritmi che -è bene ricordarlo- non è mai casuale.

Il secondo fenomeno è il deliberato tentativo degli oligopolisti della rete occidentale, guarda caso un pugno di aziende tutte con sede in California, di concentrare progressivamente il traffico degli utenti di Internet su un numero di siti sempre minore, con l’obiettivo di riportare la fruizione multimedia globale in uno scenario “push” di stampo vetero-televisivo. Questa è ad esempio la politica messa in atto da Google negli ultimi anni, con continue modifiche al proprio algoritmo, che tendono a fornire risposte molto efficaci ai quesiti degli utenti, certamente, ma anche sempre più schiacciate in un presente esaustivo e autoreferenziale.

Come dire: un ritratto a tutto tondo della cosa richiesta, quasi una scultura, ma con poche ombre e assai adente all’attualità, privilegiando le fonti più note, meglio se con il marchio Google, come YouTube. Il risultato è che gli autonomi percorsi di ricerca degli utenti si non accorciati, a maggior ragione con l’avvento del mobile, a causa degli schermi di piccole dimensioni, che non facilitano la lettura ragionata.

E guarda caso, chi ne trae vantaggio? Le majors dell’editoria, meglio se previa accordo commerciale con i colossi Usa, se non loro stessi, con Google che su tutti gli argomenti prova ormai a dare risposte dirette all’utente, piuttosto che suggerire risposte di altri, mediante un elenco di link ad altri siti.

Resta il fatto che i contenuti in rete, negli ultimi 25 anni li hanno caricati non i colossi californiani, ma gli utenti stessi, centinaia di milioni di persone -oltre a pubbliche istituzioni culturali di tutto il mondo- che si sono donati reciprocamente conoscenza in tutte le lingue.

Possibile che ora tutto questo patrimonio di cultura, arte, intrattenimento e spettacolo, possa essere lasciato al monopolio di non più di dieci aziende globali? E che nessuno obietti sul fatto queste possano intermediare liberamente lo scibile umano grazie ai loro algoritmi brevettati, condizionando i flussi di conoscenza, o peggio dirottando l’attenzione del pubblico, guarda caso, sempre più spesso, dove possono trarne maggiori guadagni, con pubblicità e merchandising?

A noi non pare possibile a lungo e siamo convinti che presto, o tardi, magari grazie ad “inciampi” come le bufale nelle presidenziali Usa, qualcuno comincerà a domandare all’opinione pubblica e sopratutto alla politica se non sia il caso di cominciare a immaginare la ri-pubblicizzazione di questo sterminato patrimonio immateriale. Poiché non è giusto che sia incatenato e condizionato da un sistema di brevetti commerciali. Ssemplicemente perché sarebbe come brevettare beni indisponibili, come l’aria, o l’acqua.

Se la rete Internet è stata creata delle menti geniali uscite negli ultimi 40 anni dalle Università occidentali, forse proprio nel mondo accademico (magari costituito in consorzio internazionale) dovrebbe tornare il controllo di una risorsa indisponibile, ormai strategica per il futuro della democrazia e dell’umanità. Di recente sono stati commessi pericolosi errori, ma siamo certi che ci sarà modo di rimediare.

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