​Firenze Capitale: i fiorentini parlano per primi l'italiano

Il dialetto del popolo unito. Dante Alighieri lo ha forgiato, Alessandro Manzoni lo ha consacrato. Se il primo è un simbolo, il secondo lo abbiamo dimenticato

Antonio
Antonio Lenoci
17 novembre 2015 12:44
​Firenze Capitale: i fiorentini parlano per primi l'italiano

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in arrivo a Firenze, accolto presso l'Accademia della Crusca, ne diventa accademico onorario.I 150 anni di Firenze Capitale coincidono, infatti, con i 150 anni dalla nascita di una unica lingua italiana: il fiorentino.A segnare questo passaggio sarà soprattutto un uomo, il senatore Alessandro Manzoni che dopo aver votato per il trasferimento della Capitale da Torino a Firenze, si occuperà di redigere una apposita relazione che farà tesoro dell'opera svolta per la ristesura del Fermo e Lucia: il viaggio in Toscana, la scoperta di un dialetto fiorentino che univa il popolo di ogni ceto sociale ed il passaggio dalla "ventisettana" alla "quarantana" de I Promessi Sposi.Inizia qui la straordinaria fortuna dei fiorentini che si trovano ad avere già in tasca la padronanza della lingua e gran parte di quella preparazione scolastica che segnerà la vita di molti loro coetanei negli anni a venire.Maurizio Vitale nel 1991 sulla rivista La Crusca risponde ad un quesito sulle ragioni del fiorentino nella scelta della lingua nazionale "Ogni dialetto avrebbe potuto, in linea generale e teorica, assurgere in Italia alla funzione e alla dignità di lingua nazionale, perché ogni dialetto possedeva tutte le qualità di una lingua come strumento sociale e intellettuale e nessun dialetto poteva vantarsi di avere in sé potenzialità linguistiche peculiari che lo rendevano il solo idoneo a svolgere i compiti propri di lingua di una nazione".Ed allora qual è la risposta offerta dall'Accademia della Crusca? "La formazione di una lingua nazionale, quando non sia determinata da ragioni politiche o sociali o di altro genere, ma da ragioni strettamente culturali e letterarie prima di una unità statuale, come è stato in Italia, presuppone la presenza di altissimi scrittori che con il prestigio ineludibile delle loro opere impongono il loro dialetto a tutti gli altri parlanti".

Dante, Petrarca e Boccaccio, sono i sommi ad influenzare la letteratura per secoli.Nell '800 si cerca una identità di lingua e di nazione, occorreva perché "Troppo distante era lo scritto dal parlato". In questi anni Alessandro Manzoni è impegnato nella correzione del Fermo e Lucia verso I Promessi Sposi ed affronta un viaggio in Toscana da Livorno, Pisa e Firenze dove rimane un intero mese confrontandosi con il dialetto locale. Manzoni passa così dallo scrivere "io mi figuro di sì" a "a me mi par di sì".

Il romanzo ambientato nella Lombardia del '600 sarà il documento ideale sul quale Manzoni elaborerà nel 1868 la relazione Dell'Unità della lingua chiesta dal Ministro dell'Istruzione Emilio Broglio.Il problema era così grave? Gli italiani si sarebbero trovati uniti sotto la stessa bandiera senza però riuscire a comprendersi tra loro. Senza volersi addentrare tra le trincee di guerra, dove soldati di varia provenienza combattevano lo stesso nemico, ma parlavano ed avrebbero a lungo parlato ciascuno la propria lingua, il senso del problema lo troviamo nella Relazione Matteucci del 1865 “Sulle condizioni della pubblica istruzione nel regno d’Italia”.Gli analfabeti erano pari al 78%, al Sud il 90%.

La legge Casati o Regio Decreto del 13 novembre 1859, affermava la necessità sociale della scuola sulla base di due principi fondamentali: obbligatorietà e gratuità. Attraverso alcuni quesiti posti allora agli ispettori possiamo oggi capire quale fosse la situazione. Nelle scuole si usa il dialetto o la lingua italiana, e questa si parla senza gravi scorrezioni? Se ad Aosta si parla il francese, Milano risponde "La lingua italiana i maestri non la conoscono e non vogliono adoperarla, difendendosi colla scusa, che i loro alunni non l’intendono"Torino risponde così "I fanciulli settenni i quali hanno sempre parlato il linguaggio della mamma e dei babbo, debbano trovarsi in imbarazzo nel dover esprimere i proprj pensieri in italiano; ma a poco a poco si avvezzano, e pagando il tributo di molti errori, giungono più tardi a maneggiare la lingua con discreta facilità.

Nelle scuole dei piccoli comuni, e delle borgate col pretesto che i fanciulli non intendono l’italiano, i maestri parlano sempre il piemontese". Bologna spiega di essere "affine alla Toscana, evvi molta facilità a rendersela famigliare, perchè il dialetto è un impasto di parole storpiate bensì, ma di buona lingua; nella bocca de’ fanciulli però non va esente da idiotismi e da scorrezioni, impossibili a togliersi nel breve tempo che s’impiega nelle scuole elementari". A Lucca ed Arezzo "si usa la lingua italiana pura nelle scuole e non il dialetto, e la lingua si parla dagli insegnanti con pochissime scorrezioni, giacchè tutti i maestri di questa provincia son toscani".

Napoli? "Gl’insegnanti vecchi usano il dialetto; e alcuni che parlano in iscuola in italiano, parlano assai scorretto". A Palermo e Cagliari infine "Nelle scuole usasi in generale la lingua italiana, e questa parlasi con abituali scorrezioni che originano dal dialetto".Nel quadro desolante emerge un aspetto a dir poco suggestivo, non è solo un problema di alunni e così qualcuno si preoccupa degli insegnanti "Il poco prospero andamento di molte scuole rurali è in gran parte dovuto alla difficoltà di aver buoni maestri, e ciò in causa dell’infelice condizione in cui tuttora si trova il ceto dei pubblici e privati educatori.

La legge non volle considerare i maestri che quali prestatori d’opera. Quindi lasciò libera facoltà ai Comuni di assumerli a tempo determinato, e quando non fosse convenuto alcun tempo prefisso, si ritenne limitato il loro servizio ad un triennio. Questo stato di continua precarietà rende la condizione dei povero maestro e quella della maestra, siffattamente instabile da togliere loro ogni alacrità al ben fare, non essendo mai certi della vita dell’ indomani".

Era il 1865. 150 anni per arrivare alla Buona Scuola.Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Criusca ricorda che "Il fascicolo di marzo 1868 della “Nuova antologia” di Firenze, una delle riviste più importanti nell’Italia dell’Ottocento, si apriva con un intervento di Alessandro Manzoni, la Relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla o “Relazione manzoniana”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, nella quale lo scrittore spiegava quale dovesse essere la lingua nazionale, dove la si dovesse cercare, come la si potesse diffondere".

Cosa propone Manzoni? "Impiego massiccio di maestri toscani nelle scuole, viaggi in Toscana per gli studenti e la redazione di un vocabolario della lingua fiorentina". Il vocabolario, commissionato dal Ministero della Pubblica Istruzione, viene pubblicato tra il 1870 ed il 1897 a cura di Giovan Battista Giorgini ed Emilio Broglio.A differenza delle città italiane che dedicano a Manzoni statue, Firenze riceve una statua dal Manzoni: è quella di Dante Alighieri.

Nel 1857 Manzoni partecipa alla sottoscrizione pubblica che mira a donare un monumento al Comune di Firenze: l'opera di Enrico Pazzi, anziché nella prevista piazza dell'Unità Italiana finirà in Santa Croce, al centro della piazza, inaugurata alla presenza del re Vittorio Emanuele II nel maggio del 1865.Firenze ricorda oggi Manzoni con una semplice targa presso il palazzo dell’antica famiglia fiorentina dei Gianfigliazzi, dove ha risieduto con la famiglia, e con una strada, quella che collega piazza Cesare Beccaria con l'incrocio tra via Giovan Battista Niccolini e via Giacomo Leopardi. "Il tracciato fu intitolato allo scrittore quando questi era ancora in vita, con delibera della giunta comunale del gennaio 1868, individuando una strada fra la piazza dedicata a suo nonno Cesare Beccaria e quella dedicata a suo genero Massimo d'Azeglio" così scrivono Bargellini e Guarnieri.

In piena urbanizzazione con il progetto di adeguamento di Firenze messo a punto dall'architetto Giuseppe Poggi, la via Manzoni si viene a trovare oggi attigua alla Scuola intitolata a Giosuè Carducci, colui che "A quindici anni avevo letto già 5 volte I Promessi Sposi" trovandoci rappresentata sotto le mentite spoglie seicentesche tutta la società del tempo.Quel che oltre le Alpi si sarebbe definito un romanzo storico ancora oggi fa storcere il naso agli studenti italiani, compresi quelli fiorentini.

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