Cultura in trincea: la poesia italiana della Prima Guerra Mondiale

Pur nella sua tragicità, la Grande Guerra segnò una stagione irripetibile per i nostri poeti-soldati, che con rara sensibilità raccontarono le difficoltà e l’orgoglio di un Esercito al fronte. Dai versi aulici di Gabriele D’Annunzio alla commovente immediatezza degli improvvisati “poeti di trincea”, a distanza di un secolo quelle sensazioni ci toccano ancora.

16 agosto 2015 10:05
Cultura in trincea: la poesia italiana della Prima Guerra Mondiale
Gabriele D'Annunzio - Canti della Guerra Latina

ROMA - Dal leggendario Omero, in quell’alba greca della civiltà, la poesia è la forma espressiva riservata agli eroi, al coraggio, all’amor di Patria, al disprezzo della morte. L’epica è la forma più alta per esaltare le gesta del singolo e di un intero popolo, in particolare le sue gesta militari, e il suo tramandarsi nel tempo contribuisce non poco al radicamento di quel sentimento d’appartenenza su cui si fonda l’unità di quel popolo. Oltre che forma di omaggio agli eroi, reduci o caduti che siano, la poesia di guerra è anche un prezioso strumento d’incitamento e motivazione delle truppe al fronte, nonché di propaganda nazionalista. L’ultima grande stagione di questa particolare forma lirica si ebbe con la Prima Guerra Mondiale, considerata l’ultimo dei conflitti ottocenteschi, non soltanto in senso tattico e strategico, ma anche per il contesto in cui maturò, e per i sentimenti nazionalistici che fu capace di suscitare.

L’Italia, a causa della sua indecisione politica, visse l’intervento in modo ambiguo, e continuò a seguire le fasi del conflitto con il medesimo stato d’animo - ovvero d’indifferenza e distacco, quando non era di aperta sfiducia -, dovuto sia alla scarsa cultura militare sia alla mancanza di un compiuto senso nazionalista.

Tuttavia, neppure in Italia mancò un’epica di guerra che ancora oggi emoziona per i sentimenti che seppe risvegliare, e che ebbe, fra i tanti, i rappresentanti più autorevoli in Giuseppe Ungaretti, Piero Jahier, Ardengo Soffici, e naturalmente Gabriele D’Annunzio.

Con la sua sintesi di stampo ermetico, Ungaretti cattura i disastrosi effetti del conflitto in Immagini di guerra, 1916: L'aria è crivellata //come una trina //dalle schioppettate e ancora in San Martino del Carso: Di queste case//non è rimasto//che qualche//brandello di muro//. Poche, scarne parole, per fermare sulla carta le immagini terribili della distruzione d’interi paesi a causa di quei colpi di cannone che volteggiano nell’aria e la bucano “come una trina”.

Intanto, lontano dal fronte, a causa della forma circostanziata dei bollettini di guerra pubblicati dalla stampa, poco si capiva della situazione bellica, e se la vicinanza del popolo italiano all’Esercito era vergognosamente scarsa, al contrario era particolarmente forte il cameratismo fra i soldati al fronte, in particolare fra gli Alpini, da sempre il più coeso dei reparti dell’Esercito. Vi rende omaggio Piero Jahier, che nel componimento Prima marcia alpina esprime lo spirito di fratellanza dei soldati al fronte: Tutti per uno//mano alla mano//dove si muore discendiamo.

Il pittore Ardengo Soffici, fervente interventista che combatté sul Carso con la III Armata, oltre al toccante diario della ritirata dal Friuli a seguito della disfatta di Caporetto e al diario delle battaglie sul Kobilek, ha immortalato queste ultime anche in una poesia, Sul Kobilek, appunto, nelle cui ardenti quartine dispiega il suo fervore guerriero, saluta la guerra come occasione di gloria per sé e la Patria, e l’impeto della giovinezza che quasi rende invincibili contro la morte sul campo: E tranquillamente aspettare// Soldati gli uni agli altri più che fratelli//La morte; che forse non ci oserebbe toccare//Tanto siamo giovani e belli.

Mai come in guerra si riflette sulla caducità dell’esistenza, e Giuseppe Ungaretti, volontario sul Carso, descrive con un’immagine bucolica quale sia il peso della spada di Damocle sospesa sui combattenti (Soldati, 1917): Si sta come d’autunno//sugli alberi le foglie. Ma l’analisi del poeta non è meramente statistica, scegliendo l’immagine della foglia d’autunno, pronta a cadere al minimo colpo di vento, ritrae soldati la cui vita è appesa a un filo, e che, uomini in fondo inermi davanti alla Morte, tremano nel loro intimo, com’è giusto per ragazzi la cui età media si aggira sui venticinque anni.

Una paura che non è codardia, poiché la truppa, salvo rari casi di diserzione, seppe mantenere con coraggio le posizioni, mai ritraendosi al momento dell’attacco, e affrontando con determinazione i reticolati e i cannoni austro-ungarici. Più semplicemente, Ungaretti vuole ricordare alla Nazione, a quel popolo italiano troppo emotivamente lontano dalle loro sofferenze, che anche i soldati sono uomini - certo più meritevoli dei tanti imboscati o raccomandati rimasti nelle retrovie -, e che in quei giorni donavano la vita per compiere l’unità del Paese.

Fra i più ferventi sostenitori dell’interventismo, Gabriele D’Annunzio, il Vate d’Italia, restò coerente alle sue arringhe del “Maggio radioso”, e prestò servizio in linea sia in Aviazione sia in Marina, guidando all’interno di quest’ultima la celeberrima “beffa di Buccari”, mentre come aviatore si distinse per la trasvolata su Vienna, due imprese fra le sue tante, che suscitarono vasta eco nell’opinione pubblica nemica. Ma da letterato qual era, volle onorare e celebrare lo sforzo bellico italiano attraverso i Canti della guerra latina, dove con la maschia e raffinata eloquenza che gli è propria, l’Immaginifico scioglie inni ai sovrani d’Italia, alla nazione serba alleata nella lotta contro gli austro-ungarici, ai caduti.

Tuttavia, per il loro stile aulico e per la visione arcaizzante della guerra, vista come un certame omerico, i canti dannunziani ebbero poca fama nel Paese e fra la truppa, anche se il Cantico per l’ottava della Vittoria, rammaricandosi per la “vittoria mutilata” riscaldò non poco gli animi per la successiva impresa di Fiume.

Ma forse, a toccare davvero il cuore dei soldati - la maggior parte dei quali analfabeti o comunque poco istruiti -, non furono i versi di quei poeti che pur combattevano al loro fianco, ma quelli dei tanti improvvisati “autori di trincea”, che al lirismo sostituiscono il pragmatismo, e quel “fare di necessità virtù” che accompagnò sempre i soldati al fronte. Per questo, ci piace chiudere citando Ponte de Priula, una poesia di autore anonimo, conservata al Museo della Grande Guerra di Rovereto, e scritta all’indomani della disfatta di Caporetto: Ponte de Priula//l'è un Piave nero//Tuta la grava//l'è un simitero.

Nessuna retorica, soltanto il dolore per la sconfitta e per la morte di tanti commilitoni. Al di là delle questioni strategiche e tattiche, non è azzardato affermare che se l’Italia è uscita dalla Prima Guerra Mondiale in maniera abbastanza onorevole, lo si deve al valore dell’Esercito, a quelle migliaia di soldati che hanno combattuto con coraggio e dedizione alla Patria e ai compagni.

Niccolò Lucarelli

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