Craig Taborn e quel jazz degli anni Zero

A Metastasio Jazz, in collaborazione con il Musicus Concentus di Firenze, il concerto conclusivo del tour europeo del pianista di Minneapolis. Entusiastici applausi per le raffinate sonorità contemporanee che guardano alla tradizione d’autore.

10 febbraio 2015 10:45
Craig Taborn e quel jazz degli anni Zero

PRATO - Una parentesi d’intelligenza in un mondo di volgarità. Potrebbe essere così riassunta l’essenza del jazz in generale, e della musica di Craig Taborn in particolare, esibitosi ieri sera con il gruppo Heroics che lo ha accompagnato in questo tour europeo. Un Taborn che non ha smentita la sua fama di sperimentatore di nuove avventure musicali, colorando la serata con il suo jazz in bilico fra tradizione e sperimentazione, a cominciare dall’ennesimo cambio di compagni di viaggio. Il pianista di Minneapolis si è presentato sul palcoscenico pratese con l’inedita formazione Heroics, appositamente reclutata per questo tour, e costituita dal sassofonista Chris Speed, il contrabbassista Chris Lightcap e il batterista Dave King. Perfettamente affiatati nonostante si trovino alla prima esperienza tutti insieme, anche se Lightcap vanta già un’esperienza in trio con Taborn.

Anche quest’anno le intelligenti scelte della direzione artistica hanno regalata una splendida finestra sugli Stati Uniti d’America, in perfetta continuità con l’appuntamento dello scorso anno, quando Brad Mehldau e soci estasiarono il pubblico con un jazz tanto politicamente non convenzionale quanto esteticamente complesso, critici cantori della quotidianità americana più adulta, fatta di un continuo osservare - e interrogarsi su -, le relazioni interpersonali, l’amore, i compromessi con il sistema.

Craig Taborn ha invece portato a Prato il lato più intimo dell’American Dream, colto in piena riflessione su sé stesso, le sue luci e le sue ombre, rese sulla metaforica china delle note, attraverso una prima parte di serata caratterizzata da continui cambi d’atmosfera, con sonorità contemporanee appena venate di funky e progressive, alternate a salti temporali nella psichedelia degli anni Sessanta, come se dalle sicurezze contemporanee salissero dubbi a incrinarne la solidità. Comprensibile, alla luce del crac del 2008. Ascoltando bene, questa è l’elegia musicale degli anni Zero, un decennio controverso, nevrotico e difficile, dove ognuno è alla ricerca di un’identità, indeciso se guardare avanti o indietro.

Il concerto si apre con la sobria, straniante sequenza di Golden age, Beat the ground, All true night, Jamaican farewell (questa scritta da Roscoe Mitchell), dove a un’introduzione eseguita con il la tastiera elettronica - un suono lancinante che è una ferita aperta nel deserto, surreale come i voli delle api di Salvador Dalì -, si accompagnano le leggere percussioni di King, che trovano eco nel sax sommesso di Speed, suonati a strappi - ora acuto, ora più roco -, omaggio proprio al grande Mitchell.

Craig Taborn, da parte sua, alterna la tastiera elettronica con il classico pianoforte, e quando il ritmo della batteria si fa più cadenzato, accanto al dinamico contrabbasso di Lightcap si disegnano atmosfere urbane spigolose e luminose, dai clori forti, degne della fotografia urbana di Franco Fontana, nella Seattle degli anni Ottanta. Il colore è l’essenza di una sensazione, una tesi già espressa a suo tempo da John Lennon che nel 1966 così scriveva in un verso di Tomorrow never knows: «listen to the color of your dreams», ovvero «ascolta il colore dei tuoi sogni». In senso lato, Taborn riparte dalle radici esistenziali del jazz, e ne fa autentica “scrittura di luce”.

Nuovo cambio d’atmosfera con l’assolo al piano di Craig dal sapore schubertiano, prima che entri il resto della band, a dare corpo a un’atmosfera onirica, che un po’ ricorda le fumose atmosfere delle cantine di Saint Germain o il più patinato newyorkese Fillmore East, templi del jazz eroico rispettivamente nella Parigi occupata e nell’East Coast della psichedelia. E proprio nella psichedelia Craig e soci trascinano il pubblico, che li segue affascinato attraverso suoni così eterei da sembrare respiri cerebrali; atmosfere beatlesiane di A day in the life. L’utilizzo della tastiera elettronica da parte di Craig spinge verso le forme nitide di una futuristica utopia, apparentabile alle appena inquietanti atmosfere di Herman Hesse nelle pagine del Giuoco delle perle di vetro; ne scaturisce un jazz intimistico non scevro di briosi, coinvolgenti scatti ritmici che ricordano il rock progressivo.

Con i brani Etem e Ancient, la serata abbandona definitivamente le atmosfere rarefatte, per un jazz solido e caldo, e Speed lascia il sax per il clarinetto. L’immaginazione del pubblico si lascia trasportare sulle ali degli esaltanti dialoghi fra il pianoforte e la batteria, con un clarinetto rotondo e dinamico a completare il quadro.

In chiusura, i due bis New glory e Hot blood ricordano altrettante short-stories di Rick Moody, dalla vivace invenzione narrativa con il piano quasi honky tonk che sostituisce carta e penna, innestandosi su un motivo a due note del clarinetto.

Applausi entusiastici del numeroso pubblico, per un concerto che è stata una continua stratificazione di atmosfere, e dove Craig Taborn ha dimostrata la sua agilità nel muoversi fra differenti stili e situazioni, ben supportato in particolare da un Chris Speed che in più di un’occasione strizza l’occhio al vecchio gentiluomo del jazz Roscoe Mitchell, eseguendo vari passaggi giocati su due sole note acute, un jazz al limite del jazz, con le note e la melodia che quasi spariscono nella sola purezza di suono e accordi.

L’America è lì, davanti a noi, con i suoi pregi e i suoi difetti, raccontata da artisti che, a dispetto del nome, non si sentono eroi, ma uomini contemporanei, con il dovere di condividere le loro sensazioni sul presente. Senza troppe illusioni.

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