Carlo Dolci, umile pennello della Controriforma

Alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti, la prima mostra monografica dedicata a Dolci, pittore molto apprezzato nella Firenze del Seicento, in particolare dai Medici. 93 opere ne ricostruiscono la parabola artistica, visibili fino al 15 novembre 2015. Tutte le informazioni al sito www.unannoadarte.it.

29 giugno 2015 17:26
Carlo Dolci, umile pennello della Controriforma
Carlo Dolci - Salomè con la testa del Battista 1670

FIRENZE - Seppur ancora sotto la dinastia medicea, la Firenze del Seicento aveva perso molto del prestigio e del clima di vivacità artistico-intellettuale che l’avevano caratterizzata nei due secoli precedenti, al punto da ricoprire, stando alla memorialistica dell’epoca, un ruolo secondario nel panorama culturale e politico europeo. Una condizione comune a tutta l’Italia - fatta parziale eccezione per il Piemonte e la Repubblica di Venezia -, scaduta a colonia spagnola sottoposta al rigido clima della Controriforma.

Non era facile barcamenarsi nell’equilibrio politico del tempo, nel quale entravano prepotentemente anche le questioni religiose, e la Chiesa cattolica sostenuta da Madrid lottava strenuamente per reimporre un pressoché assoluto controllo sulla cultura del tempo. Vantando un così valido alleato, riuscì nell’impresa, e per l’Italia il Seicento rappresentò un secolo d’involuzione delle arti, del pensiero e dei costumi, che riuscirà a superare soltanto alla metà del Settecento, quando anche sulla Penisola cominciò a soffiare il vento riformista dell’Illuminismo austriaco.

Ma intanto, a Firenze, dai tempi di Lorenzo il Magnifico il quadro era molto mutato, non si parlava più di Platonismo e di Grecia Antica, né più vi lavoravano Michelangelo, Leonardo o Raffaello. I regni dei Granduchi Ferdinando II e Cosimo III segnarono la Firenze Barocca, e se il primo (sul trono dal 1621 al 1670) fondò la Sperimentale Accademia Medicea e fu protettore dell'Accademia del Cimento, (che fu la prima società scientifica europea di carattere sperimentale), non si salvò comunque dal pagare pegno alla Controriforma, non impedendo il processo a Galileo Galilei nel 1633.

Fu comunque un buon mecenate, ultimo Medici degno del nome, cui successe quel Cosimo III che, per citare Montanelli, della casata fu moralmente il liquidatore. Succube della Chiesa e del clero, avvolse Firenze e la Toscana in una sorta di sudario penitenziale, finanziò conventi e opere pie, rafforzò i tribunali religiosi, promulgò leggi restrittive contro la comunità ebraica, e per dar prova di zelo puritano, ordinò di rimuovere dall'altare del Duomo le statue di Baccio Bandinelli raffiguranti Adamo ed Eva nudi, considerate pornografiche.

Nel generale clima di sospetto, paura, scrupolo religioso, istillato dalla lunga mano dell’Inquisizione, anche la vena artistica si era inaridita non poco, al punto da poter esprimere soltanto figure minori, legate a modelli accademici ligi ai dettami controriformistici, figure dalla tecnica stilistica inappuntabile, tale da destare meraviglia per la perizia con cui riproducono i più piccoli particolari, siano essi ricami di vesti, gioielli, pieghe di abiti femminili, incarnati cerei suscettibili di conferire un’aura ieratica ai volti degli individui rappresentati sulle tele. Eppure, pur esteticamente ammirabili, a queste tele manca fondamentalmente quell’impronta umanistica che aveva caratterizzata l’arte del Quattrocento e del Cinquecento, manca la presenza dell’essere umano inteso come componente razionale e autonoma dell’Universo, dotato di libero arbitrio e capacità di discrezione.

L’arte del Seicento, conosciuta come barocca, ha - eccettuati pochi grandi nomi -, soltanto una schiera di cortigiani ligi ai dettami di Roma, pena una condanna che poteva andare dalla censura alla morte sul rogo. Se quest’ultima non interessò i pittori, colpì comunque pensatori come Giordano Bruno, e fu l’ossessione che condusse alla pazzia il Tasso. E ancora, fu per sfuggire a quest’atroce condanna, che Ochino e Carnesecchi scelsero l’esilio.

Nel deprimente clima dell’Italia e della Toscana del Seicento, spunta la figura di Carlo Dolci, avviato alla pittura ancora bambino nel 1625, presso la bottega di Jacopo Vignali, e apprezzato sin dagli esordi dalla famiglia Medici, che fu entusiasta collezionista delle sue tele, al punto che il nucleo più importante delle opere del Dolci, circa trenta, appartiene alla Galleria Palatina, sede quindi “naturale” per la prima mostra monografica a lui dedicata: Carlo Dolci 1616-1687, che già nel titolo evoca l’aspetto biografico che intende assumere.

Una mostra di studio e di ricerca, occasione per il restauro di ben 37 tele, nonché di conoscenza al grande pubblico di un pittore che fu molto apprezzato dai contemporanei per il rigore descrittivo, la definizione delle sue figure, la cura quasi maniacale della resa dei dettagli, che impiegò quasi totalmente nella produzione di soggetti religiosi, in ossequio ai timorati gusti della nobiltà e della borghesia fiorentine, che certo non erano più quelle gagliarde dei tempi del Magnifico.

Tuttavia, questa dovizia di particolari, che qualcuno ha paragonata con la “verità delle cose” dl secolo di Galileo, è in realtà il pegno pagato alla vuotezza del Barocco, i cui ori e splendori abbagliano lo sguardo per compensare l’incapacità di interessare l’intelletto. Contrariamente, Dolci sarebbe stato un pittore attento all’anima dell’essere umano, alle sue ricerche di verità, e sarebbe stato mosso dall’indignazione per il vergognoso processo mosso contro Galileo. Invece niente, da uomo mediocre come molti del suo tempo, che mai uscì da Firenze se non in tarda età, nel 1673, per recarsi a Innsbruck, dove fu richiesto di un ritratto dell’Imperatrice Claudia Felicita.

Rientrato a Firenze, riprese l’attività di pittore ligio alla Controriforma, e così castigata fu la sua pittura, che invano cercheremmo un nudo nelle sue tele, ché sempre si rifiutò di dipingerne.

Una figura, quella di Carlo Dolci, di non particolare spicco, che riveste interesse più per gli addetti ai lavori che per il vasto pubblico, che difficilmente troverà nelle sue tele un palpito di vera arte, costantemente sacrificata all’oppressivo clima socio-politico dell’epoca.

Niccolò Lucarelli

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