John Gabriel Borkman: Maccarinelli coglie la fine delle utopie

Piero Maccarinelli porta al Teatro della Pergola le inquietudini, i rimpianti, le brillanti idee e le spregiudicatezze di un uomo che, se ha fallito, lo deve al fatto di aver investito troppo nella poesia della vita

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
19 marzo 2014 11:46
John Gabriel Borkman: Maccarinelli coglie la fine delle utopie

FIRENZE - Chi è John Gabriel Borkman? L’ultimo, ingenuo eroe del Novecento? Un dandy al limite del parossismo? Un inappartenente Adam Patch che progetta una grande impresa solo per poter esclamare “Gliel’ho fatta vedere!” (al mondo)? Piero Maccarinelli porta al Teatro della Pergola le inquietudini, i rimpianti, le brillanti idee e le spregiudicatezze di un uomo che, se ha fallito, lo deve al fatto di aver investito troppo nella poesia della vita. Legato, per motivi diversi, a due donne, le sorelle Ella e Gundhild Rentheim, (rispettivamente Manuela Mandracchia e Lucrezia Lante Della Rovere), senza mai abbandonarsi completamente né all’una né all’altra, Borkman è in realtà un uomo solo, votato alle proprie utopie, concentrato sul piacere estetico di poter veder realizzato il proprio pensiero a beneficio del futuro benessere dell’umanità.

Ex banchiere caduto in disgrazia, ha sempre concepita la finanza come una missione filantropica, e le sue mosse spregiudicate erano dettate soltanto da tali motivazioni. Ed è questa l’utopia che cattura fino a sconvolgerla la vita di Borkman, facendone un uomo entusiasta e tormentato. Nella vita, il vero problema, l’unica ragione di sofferenza, è il “non esserci”, così proclama John Gabriel, tradendo tutta la sua impazienza, e la sua innata fiducia nell’azione. Riflettendo sulle ragioni del suo fallimento, dopo dieci anni di prigione e otto di reclusione volontaria nella propria casa, Borkman conclude che “io essendo io, non avrei potuto comportarmi diversamente”, ribadendo con decisione l’importanza dell’Io poiché la vita è essenzialmente un percorso individuale di creazione. Massimo Popolizio, da parte sua, offre prova drammatica di grande spessore; andando ben oltre il personaggio, riesce a portare sulla scena l’uomo Borkman, quel "Napoleone azzoppato", con le sue inquietudini legate al fallimento e le ossessioni di riscatto. Al suo fianco, si muove l’amico ed ex collega Vilhelm Foldal, interpretato da Mauro Avogadro.

È costui l’antitesi artistica di John Gabriel; coltiva ambizioni artistiche, ma, troppo insicuro di sé stesso, (quasi una sorta di Soccombente ante-litteram), non riesce a dare alla propria vita la svolta desiderata. Avogadro lo interpreta con levità, dalla quale emerge la sua debolezza di dandy mancato, accostabile, per temperamento, al Monsieur Plume di Michaux, ormai fuori dal tempo e dalla storia. Sul finire dello spettacolo, viene investito dall’auto a bordo della quale la figlia sta per trasferirsi all’estero, ma l’episodio sembra non toccarlo minimamente; imperterrito, prosegue il suo cammino, senza che, all’apparenza, niente lo abbia sfiorato.

Noncuranza? Patafisica distrazione? A differenza di Borkman, Foldal resta appartato, non meno innamorato delle utopie ma innegabilmente più debole. In diametrale opposizione ai due uomini, troviamo le sorelle Ella e Gundhild Rentheim, rispettivamente cognata (e amante di vecchia data), e moglie di Borkman, entrambe gelose dell’affetto del nipote e figlio Erhart, concentrate sugli aspetti pratici della vita, su quella prosa, insomma, con la quale John Gabriel ha sempre rifiutato di scendere ha compromessi.

Lo stesso Erhart, riesce a fatica a liberarsi da una madre eccessivamente protettiva, per andare incontro a un destino “borghese”, e recitare nella vita una di quelle parti il cui copione conosciamo in anticipo, da tanti se ne vedono in giro. La generazione dei giovani, ci spiegano Ibsen e Maccarinelli, non ha più gli slanci ideali dei padri, e brucia la vita in un effimero istante, senza lasciare ai posteri traccia del suo passaggio su questa Terra. Convincente l’interpretazione di Mandracchia e Della Rovere, impegnate in una sorta di duello al femminile, desiderose di dimenticare un passato che comunque le tiene prigioniere. Un finale bello e intenso, che non sveliamo per ovvie ragioni, corona uno spettacolo dalla non comune maturità artistica, salutato da scroscianti applausi alla calata del sipario. Tutto il dramma ibseniano si sviluppa lungo una serie di doppi confronti, a cominciare da quello, in aperturab di sipario, fra le due sorelle Rentheim, entrambe legate a Borkman e al figlio e nipote Erhart; un confronto, questo, che sa di resa dei conti, fatto di rivalità femminile, gelosia, reciproco desiderio di vendetta, ma anche reciproca comprensione.

A un altro livello, si pone il confornto tra Borkman e Foldal, che si sviluppa in forma di appassionata e dotta disquisizione sull'arte, la poesia, le difficoltà della vita; un confronto interpretato da Avogadro e Popolizio con virile asciuttezza. Infine, l'incontro-scontro fra John-Gabriel e la cognata Ella, struggente occasione per rievocare un passato nel quale nessuno dei due è immune da colpe. La pièce è scandita da un ritmo solenne e cadenzato, avvolgente come l'aurora boreale, e che ricrea splendidamente la severa atmosfera del costume nord-europeo.

L’intuizione registica di Maccarinelli sta nell’essersi affidato ad attori che, per età anagrafica, hanno vissute le ultime utopie del Novecento, e il conseguente, drammatico crollo, firmando così un Borkman che ci appartiene, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello temporale. Inoltre, crediamo sia necessaria un’altra considerazione. Ibsen immaginò Borkman, e gli altri adulti del dramma, di età attorno ai cinquant’anni, che all’epoca corrispondeva alla metà avanzata. Maccarinelli, invece, dovendo allestire un dramma per i nostri giorni, non ha scelti attori di età proporzionata, ma ha invece mantenuto, come riferimento, i cinquanta anni, che oggi indicano la mezza età.

Un “mezzo del cammin di nostra vita” di dantesca memoria che in quest’epoca fa sentire il suo peso: forse mai come adesso, infatti, ci troviamo scomodamente sospesi fra un passato in parte significativo, in parte tragico, e un futuro che ancora non riesce a delinearsi, stretti fra la crisi economica, la decadenza sociale, la volgarità televisiva e lo scadimento culturale. Una nuova età di mezzo dove non c’è più spazio per le utopie. Degna di nota anche la scenografia, incentrata su un interno borghese dell’Europa del Nord, dai colori tenui ma avvolgenti, e che nell’ultima parte lascia spazio a un fondale naturalistico, con alberi spogli e la sterminata pianura nordica a segnare l’orizzonte.

Un orizzonte che, concettualmente, rimanda all’idea del futuro, che per le nuove generazioni si annuncia ben misero. Con la regia del Borkman, Maccarinelli ha scritta un’altra caustica pagina del teatro italiano, allestendo con eleganza e profondità uno dei testi più interessanti di Ibsen, la cui riduzione di un buon terzo consente al pubblico un approccio più dinamico. Anche se il regista ha scelto di ambientare il dramma nel Novecento, l’accostamento con la contemporaneità è inevitabile.

Rifacendosi alla cronaca, non è difficile ricordare la finanza “creativa” di Madoff, l’ex finanziere di Wall Street condannato all’ergastolo per truffa aggravata, oppure la new-economy reaganiana che nacque proprio negli anni a ridosso della caduta del Muro, e che Bret Easton Ellis ha saputo raccontare nel suo American Psycho. L’avidità ha sostituito l’utopismo di Borkman, facendoci piombare in una nuova età di mezzo, dove gli ideali sono morti, e l’ebbra danza mortale del denaro si aggiunge a eccessi di ogni sorta.

E in ultimo, inevitabeile l'accostamento con le recenti vicende finanziarie del Monte dei Paschi. Da qui, emerge con tutta la sua evidenza lo stridente contrasto fra il severo senso di responsabilità che caratterizza la cultura nord-europea, e l'aria da Paese di Bengodi che invece soffia sull'Italia. È difficile, per il pubblico, che pure apprezza e segue con attenzione lo spettacolo, immedesimarsi appieno in una mentalità così diversa. Eppure, certi confronti non possono che essere salutari. Niccolò Lucarelli

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