L’Italia di Leopardi è l’Italia di oggi

Poeta e pensatore poco frequentato, non fosse per l’ermo colle o il Sabato del villaggio troppo spesso legato a un’idea di dolore che ne sminuisce la grandezza, Giacomo Leopardi fu in realtà un lucido osservatore del genere umano

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
26 febbraio 2014 14:40
L’Italia di Leopardi è l’Italia di oggi

FIRENZE - Poeta e pensatore poco frequentato, non fosse per l’ermo colle o il Sabato del villaggio, (che di quando in quando tornano utili nella retorica da Strapaese), troppo spesso legato a un’idea di dolore che ne sminuisce la grandezza, Giacomo Leopardi fu in realtà un lucido osservatore del genere umano. E l’oblio ingiustificato cui questo lo ha confinato, giustifica a posteriori anche tutta l’amarezza che scaturisce dalle sue opere. A rendergli parziale giustizia, l’inconsueta trasposizione teatrale delle Operette morali, allestita da Mario Martone al Teatro della Pergola, una prova abbastanza efficace che unisce l’utile riflessione sul passato, all’innegabile attualità del poeta di Recanati.

Quel vuoto che egli avverte, nella prima metà dell’Ottocento, in sintonia con Kierkegaard, e, guardando oltre nei secoli, anche con Aristofane e Luciano di Samosata. L’errore, probabilmente, è stato nel confondere la lucida analisi di Leopardi con una visione che è pessimistica e tragica a priori, nel senso che il poeta - lontano dalle pose declamatorie tanto care a un’Italietta che in un secolo e mezzo di Unità non è riuscita a cambiare -, illustra il frutto di un meditato ragionamento basato sull’osservazione delle miserie dell’esistenza, e avverte tutto il peso della coscienza critica. Di questo approccio, Martone conserva l’impostazione di gusto classico, con architetture qua e là favolistiche, del testo originale, di modo che lo spettacolo si propone al pubblico con buona agilità, considerando anche il taglio di un’ora nella durata, rispetto alle prime rappresentazioni torinesi e romane della scorsa stagione.

Vi si alternano amare riflessioni, note di costume, tocchi di garbata, pungente ironia, a sottolineare crudeltà e disgusto (ovvero quell’anima più tormentata del Romanticismo), paradossali disquisizioni con le anime dei defunti, incastrati in inquietanti cuccette che ricordano quelle dei campi di sterminio. Ne risulta un viaggio di gusto sociologico, apparentabile al volo in mongolfiera di Giannozzo l’aeronauta, che si dipana attraverso quattordici dei ventiquattro dialoghi leopardiani, fra cui la Storia del genere umano, in apertura, passando per l’attualissimo Dialogo della terra e della Luna, il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il celebre Dialogo della Natura e di un Islandese, alla corale rappresentazione di Federico Ruysch e delle sue mummie, per arrivare allo struggente Dialogo della Moda e della Morte o a quello di un Venditore di almanacchi e del suo passeggero.

Uno spaccato ancora attuale sull’umanità in generale, e sul popolo italiano in particolare, su cui si posa lo sguardo di un Leopardi annoiato, né melenso né sentimentale, bensì capace di sfoderare una dandistica crudeltà (che sarà evidente solo a posteriori), e che, come un eroe di Metastasio, è sì rassegnato a morire, ma “prendendosela con le stelle”, gli Dèi e la Natura, che, creando la vita umana, hanno commesso un errore imperdonabile. Non si chiede di nascere, è un qualcosa che ci accade nostro malgrado, e dopo è impossibile sfuggire al tedium vitae, alla forza misteriosa della Natura, e tuttavia l’anelito d’infinito spinge l’uomo a voler conoscere la verità; paradossalmente, una volta conosciuta anche solo in parte, la vita perde il suo fascino misterioso, e mostra vieppiù la sua finitezza. E, incastrata nella montagna, insensibile alle rimostranze di un infelice viaggiatore, sta la Natura.

Nell’era sciagurata di internet, dei social network, della tecnologia come feticcio, chi più s’interroga sulla Natura, sulla sua bellezza e la sua complessità? Nell’Italia del dissesto idrogeologico, quanti sono gli “islandesi” travolti da una forza che non hanno saputo comprendere e rispettare? E ancora, esemplare la similitudine fra la Moda e la Morte, dove Iaia forte e Barbara Valmorin si fronteggiano attraverso uno specchio reso da una cornice luminosa, paradossali personificazioni dell’omogeneità cui ogni individuo dovrà arrendersi; se anche non si segue la moda, si è comunque costretti a morire.

E tuttavia, proprio per questo, come ebbe a scrivere Giorgio Manganelli - dandy non meno annoiato di Leopardi -, al pari della moda la morte “non è cosa seria”, perché cosa “da tutti”. E l’omologazione delle coscienze, che procede a passi sempre più rapidi, è il cancro principale di un’Italia senza più senso critico, che si sta spegnendo, vittima (in)consapevole di teatrini, politici o televisivi che siano, capaci tanto di appagare quanto di annichilire il rispettabile pubblico. Uno spettacolo complesso, in generale ben interpretato dagli attori, con Barbara Valmorin che v’infonde raffinata ruvidezza, Iaia Forte affascinate Natura squisitamente femminile, e Paolo Musio efficace Gallo silvestre e dotto Timandro.

Purtroppo scialba, invece, la prova di Roberto De Francesco, al quale è affidato il ruolo, importantissimo, di Tristano, inconfondibile alter ego dello stesso Leopardi, cui non riesce a infondere la necessaria verve drammatica, limitandosi a un’interpretazione accademica e senza personalità. Anche Paolo Graziosi, nel ruolo di Giove, non sempre lo interpreta con quella solennità distaccata che il caso richiederebbe. Importante la scelta del registro linguistico, che opta per un italiano arricchito da numerose declamazioni ottocentesche, permettendo di apprezzarne la bellezza.

Tuttavia, numerose sbavature del cast, in particolare di Graziosi, ne disperdono buona parte del fascino. A chiudere lo spettacolo, non il Dialogo di Tristano e di un amico, come nel testo originale, bensì quello fra Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez, in navigazione verso il Nuovo Mondo. Una scelta registica intelligente, che cambia leggermente il messaggio delle Operette, lasciando la possibilità di una tregua fra l’uomo e il suo tedio. La difficile navigazione distrae i due uomini dal pensiero dell’inutilità della vita, e sfidare il pericolo diviene paradossale mezzo per apprezzarla.

Gonfiare la vela e fare rotta verso una meta, qualunque essa sia, è forse l’unico mezzo di riscatto per un’umanità altrimenti soggetto passivo del volere della Natura. Una meta cui oggi tendono in pochi, almeno osservando il clima d’inedia e sfiducia che sta corrodendo l’Italia contemporanea, retta da un consesso a dir poco bizzarro (al confronto del quale i ghiribizzi degli Dèi classici appaiono opera di lunga meditazione), un’Italia amareggiata Se il tediato Leopardi vagheggiava un altro mondo, al di là di quella siepe che “il guardo esclude”, sembra abbastanza ovvio come oggi ci sia necessità di un’altra Italia. Nonostante qualche abbandono prima dell’intervallo, lo spettacolo è stato apprezzato dal pubblico, stante anche la curiosità per un testo colpevolmente tralasciato dal nostro sistema scolastico.

Niccolò Lucarelli

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