L’ambiguo, decadente Arlecchino di Latella

Al Metastasio si volta pagina. Latella stravolge Goldoni con caustica intelligenza, apponendo sul volto di Arlecchino una tragica, beffarda maschera di morte

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
31 gennaio 2014 13:40
L’ambiguo, decadente Arlecchino di Latella

PRATO - Al Metastasio si volta pagina. Latella stravolge Goldoni con caustica intelligenza, apponendo sul volto di Arlecchino una tragica, beffarda maschera di morte. Non è un Goldoni per vecchi. Il pubblico più maturo che si aspetta il classico Servitore di due padroni, rimane disorientato da quanto visto ieri sera in scena al Teatro Metastasio. Dallo scambio d’identità per combinare un matrimonio di convenienza, Latella allestisce un’amara commedia che spazia da Jarry a Pirandello a Kafka. Federigo Rasponi, cui Pantalone de’ Bisognosi ha destinata in moglie la figlia Clarice, muore prima del matrimonio, ma la sua identità è “presa in prestito” da Beatrice, che, amante di Florindo Aretusi, mira ad appropriarsi della ricca dote di Clarice.

Al quadro, si aggiungono le pretese del dottor Lombardi e del figlio Silvio, al quale la ragazza sembrava essersi promessa di sua volontà. Quando i personaggi si ritrovano all’albergo, prende avvio un caos umano dal quale emergono insospettati scenari - l’incesto, l’omosessualità, l’amore che è in realtà cupidigia -, e si fa luce sull’ambiguità dell’essere umano. Come se la maschera della commedia dell’arte si sciogliesse negli amari ghigni pittorici di Grosz, in particolare quando un impeccabile Arlecchino proclama la sua natura di morte e rivoluzione.

Un Goldoni pirandelliano, quindi, calato nella sciatta quotidianità della vita d’albergo, già apprezzata nei recenti Hotel Belvedere e Amletò, dei quali restano ambiguità e precarietà. Similitudini che inseriscono lo spettacolo di Latella all’interno di un ampio discorso teatrale sul malessere della società contemporanea. All’albergo converge un’umanità esasperata e logorata, ma i servi (leggi gli umili), sembrano essere gli unici ad aver conservato un barlume di coscienza critica e morale.

Non soltanto Arlecchino, ma anche Smeraldina, fidata cameriera di Clarice. Sul palco, vivacità di movimenti, da commedia dell’arte, alternata a scene più lente, quasi introspettive, e se il grande pubblico può avere comprensibili difficoltà nel seguirle, il pregio sta però nell’affascinante effetto di equilibrismo psicologico che questa alternata lentezza crea. La pièce ridicolizza, in particolare nel personaggio di Florindo, l’immatura società contemporanea istupidita dai reality e dai talk-show televisivi, per la quale la dimensione privata sembra non esistere più, sdoganata sulle facili platee dell’etere dove il comune mortale di turno s’illude di essere protagonista di qualcosa.

La menzogna è pane quotidiano, in quella che diventa una farsa all’ennesima potenza. Tutto ormai è recitato, per deformazione mentale o per calcolo. Quest’ultimo aspetto lo suggerisce l’accorato monologo di Smeraldina, che a tratti scivola forse nella retorica, ma nel complesso è un’incisiva requisitoria contro le menzogne della politica. questa, appare sullo sfondo, nel notiziario in lingua inglese che Pantalone guarda più o meno distrattamente, e che trasmette, fra gli altri, aggiornamenti sulla crisi siriana.

Un espediente scenico concettualmente collegato al candido Arlecchino dalle tragiche movenze burattinesche, interpretato da Roberto Latini e nel quale si ritrova qualcosa dell’Ubu Roi, come costui maschera di morte e di rivoluzione. Da una parte, la rivoluzione scenica e drammaturgia di Latella, dall’altra la necessità di concreti cambiamenti sociali dei quali il teatro, in un certo senso, è sempre stato portavoce, istigando, come spiega Smeraldina, a scoprire la verità attraverso la magia, la fantasia, e soprattutto il senso critico.

Intense scene vis à vis dove i personaggi sembrano quasi riuscire a incontrarsi davvero, togliendosi per un attimo quella maschera che invece li nasconde alla conoscenza altrui. L’affondo drammaturgico di Latella, di claustrofobico gusto kafkiano, arriva nel finale, con il “lazzo della mosca”, vero e proprio mini-atto di teatro nel teatro; una divertente e fastidiosa metafora sulla morte e l’oppressione, suggello finale di questa coraggiosa rilettura sociologia di Goldoni e le sue maschere, ammantata di nascosta decadenza. Interessante il registro linguistico, con l’italiano alternato ai dialetti veneto e lombardo, che mantengono un tenue legame con la tradizione goldoniana.

La scenografia di gusto contemporaneo riproduce il salone di un albergo su cui si affacciano le camere, delle quali vediamo soltanto le porte. Porte concettuali, anche, chiuse sulla verità dell’essere umano. Bella prova corale da parte di tutti gli attori, impegnati in una recitazione scapigliata e mai banale. In particolare Federica Fracassi/Beatrice, Lucia Peraza Rios/Smeraldina, e Elisabetta Valgoi/Clarice, portano sul palco complesse e toccanti figure femminile contemporanee, desiderose di emancipazione, di giustizia e d’amore.

Nonostante alcuni agitati confronti con altri pubblici italiani, al Metastasio lo spettacolo ha riscossi calorosi applausi. Niccolò Lucarelli

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