Basta, me ne vado e non torno più!

Le ragioni di una scelta definitiva nell'intervista al viaggiatore solitario Roberto Regini, che lascia la Toscana per sempre

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
01 gennaio 2014 12:12
Basta, me ne vado e non torno più!

di Nicola Novelli EMPOLI- “Parto con la determinazione di non tornare più. A metà gennaio raggiungerò la Patagonia per la sesta volta in vita mia, ma stavolta per restarci. Farò base a Puerto Williams, ma se non mi trovassi bene mi sposterò. Vorrei andare a Capo Horn. Ma davvero vivrò alla giornata: se capita, inverto la marcia è mi dirigo verso nord, risalendo il continente, magari sino al Canada”. Con Nove da Firenze il viaggiatore solitario Roberto Regini usa le stesse parole con cui ha spiegato la sua decisione agli amici empolesi.

In Italia non si trova più bene e sente il bisogno di fare una scelta radicale, un biglietto di sola andata verso una dimensione esistenziale differente. Roberto Regini, a poco più di 40 anni, ha al suo attivo oltre 200 voli con decine di destinazioni diverse in tutto il mondo. E' noto anche on line nella comunità degli appassionati di viaggi, grazie ad alcuni siti personali. “Ma li sto chiudendo tutti perché sono rimasto deluso -ci spiega rassegnato- ho ricevuto molti riscontri in termini di pubblico, ma io avevo aperto quelle pagine on line con l'intento di catalizzare attenzione e sponsor sui miei viaggi nei paesi del terzo mondo.

Invece ho capito che il mercato pubblicitario è orientato a esperienze estreme, ai protagonisti di viaggi spettacolarizzati, quelli che in TV mangiano gli insetti e si lanciano nel vuoto. Insomma tutta roba che non ha nulla a che vedere con la mia filosofia del viaggio”. Com'è diventato un viaggiatore solitario? “Da bambino avevo già la passione per la geografia, ero timido e al massimo facevo delle passeggiate in montagna con il mio cane. Poi a 18 anni il primo viaggio da solo a Londra.

Successivamente altri viaggi in Europa con il biglietto Interrail e tanta montagna sull'Appennino e sulle Alpi, tenda in spalla sui percorsi del CAI. Intanto facevo l'operaio a Empoli, nell'industria tessile e plastica, in vetreria, anche in fonderia. Insomma ho imparato a fare tante cose” Ma come è scattata la scintilla? “Nel 2001 l'esperienza di lavoro in una fabbrica empolese, che conducevo da anni, non era più stimolante e decisi di licenziarmi per sperimentare una vita diversa.

Con la liquidazione scelsi di fare un viaggio più lungo del solito, sei mesi in Nuova Zelanda. Lì mi arrangiai facendo molti lavori, la raccolta agricola, la tosatura delle pecore. Al ritorno in Italia lessi sul giornale un'inserzione di lavoro come cameriere in Germania e accettai la proposta. A Francoforte imparai il tedesco e un giorno -ricorda Roberto Regini- un cliente italiano mi suggerì di lavorare come stagionale in Trentino-Alto Adige. L'anno dopo ero a Canazei e successivamente in altre località di montagna.

Questa nuova condizione lavorativa mi consentiva di impiegarmi con profitto in alta stagione e di avere libere le basse stagioni per i miei progetti di viaggio a lunga durata”. Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua vocazione? “Quando ho cominciato a viaggiare tra la povera gente. In un altopiano della Bolivia, una volta mi ritrovai in un paesino dove non avevano mai visto un viaggiatore europeo. Persone che non avevano nulla mi ospitarono con grande cortesia e curiosità e io mi resi conto della grande fortuna che la vita mi ha regalato.

Un'altra volta, in Perù, dopo un mese che facevo la guida in escursioni di trekking, decisi di concedermi un'escursione solitaria della regione, ma quando arrivai alla fermata del pullman scoprii che la vettura era già partita e che avevo buttato i soldi del biglietto. Un ragazzo del posto mi disse che uno come me poteva tranquillamente permettersi il lusso di sprecare il biglietto. Così ne comprai subito due nuovi. Nel mio viaggio sul Pamir in Tagikistan, mi accorsi che la voce del mio arrivo precedeva i miei passi e in ogni villaggio che raggiungevo erano già pronti ad aspettarmi e facevano a gara a darmi ospitalità.

Mentre in Tibet -ricorda Regini con mal celata emozione- alla fine di una sosta in una povera abitazione decisi di lasciare una piccola mancia ai padroni di casa. Loro mi ringraziarono, spiegando che con quei soldi avrebbero comprato le scarpe per l'inverno al loro bambino. Questo è il senso dei miei progetti di viaggio: il gusto di visitare i paesi più poveri per capire a fondo l'umanità”.

Non ha paura di pericoli e imprevisti? “Fa parte del fascino dell'esperienza.

Una volta, in Alaska, sono caduto nelle acque di un fiume e lì ho avuto paura di restare congelato. Altre volte mi è capitato di venire fermato dalla polizia. In Russia, al confine con la Mongolia sono rimasto bloccato tre giorni in attesa del visto. In Kamchatka sono stato sanzionato perché viaggiavo con un visto che ho scoperto non essere esattamente quello che avevo richiesto all'ambasciata russa a Roma. E ancora, in Cina sono stato respinto nel mio tentativo di raggiungere il K2. Sono stato fermato in caserma dalla polizia e poi rispedito indietro”. Conosce il film “Into the wild”? Che cosa ne pensa? “In parte mi riconosco nel protagonista.

Anche lui vuole viaggiare per il gusto di farlo, senza l'intenzione di dimostrare niente, ma solo per sperimentare una vita diversa, non per esibizionismo”. Nel corso dei suoi incontri si è mai innamorato? “Anni fa in montagna ho conosciuto una ragazza slovacca. Abbiamo deciso di convivere in Danimarca, dove abbiamo fatto vita di coppia per un anno e io ho svolto molti lavori. Ma poi ci siamo lasciati perché lei voleva fermarsi per sempre, mentre io continuavo a sentire l'istinto della partenza”. Ha mai incontrato altri viaggiatori solitari italiani? “In Bolivia ho conosciuto un chirurgo bergamasco, che ha aperto un piccolo ospedale in un paesino, l'unico della zona.

Invece nell'Outback australiano ho incontrato un anziano che nel dopoguerra era arrivato dall'Italia e aveva deciso di stabilirsi lì per sempre. Dopo tanto tempo non ricordava quasi più nemmeno l'italiano”. La sua scelta di lasciare l'Italia la porterà in Patagonia. Perché così lontano? “La vera dimensione del viaggio non è più conquistabile in Europa, un territorio troppo antropizzato, eccezion fatta forse per la Lapponia finlandese. E poi c'è il problema del costo della vita, che in occidente è insostenibile per un viaggiatore.

In Sudamerica è tutta un'altra cosa”. Romperà i ponti con tutto e tutti? “Non è la mia intenzione. Sto chiudendo le mie pagine on line, ma non abbandonerò internet per le comunicazioni personali. Anche in Patagonia le connettività è molto più diffusa che in passato. Ma con i beni materiali, quelli sì voglio chiudere. Mi piace la vita all'aria aperta, la lentezza dei tempi per assaporare il presente e il vero senso dell'esistenza. E il continente sudamericano è perfetto per questa dimensione libera”.

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