La stanza: luogo dell’inquietudine paradossale

Harold Pinter torna al Metastasio

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
07 dicembre 2013 21:42
La stanza: luogo dell’inquietudine paradossale

PRATO- Un’umanità torbida e scombinata, che si muove fra situazioni al limite della tragedia paradossale. Da qui prende le mosse La stanza, secondo appuntamento con la drammaturgia di Harold Pinter, che torna al Metastasio dopo il sontuoso allestimento de Il ritorno a casa, curato da Peter Stein. Questa volta, assistiamo a un breve ma intenso atto unico, caustico e claustrofobico, dal suggestivo afflato scenico. Primo testo teatrale del drammaturgo inglese, scritto nel 1957 in un’Europa ancora sconvolta dai fatti d’Ungheria, racconta le strane storie che avvengono in una stanza di un anonimo palazzo di un’altrettanto anonima periferia cittadina.

Potrebbe essere Londra, Berlino, Parigi, Mosca, una città grande o piccola, europea o di un altro continente. Poco importa. L’inquietudine, suggerisce Pinter, è ovunque la stessa. E troppo spesso, di questa non se ne conoscono le ragioni. Viene alla mente Cechov, che in Zio Vanja, quasi un antesignano di Zeno Cosini, afferma che il proprio dell’uomo sia di essere “mezzo matto”, dominato da pulsioni irrazionali. All’interno della minuscola stanza che costituisce tutto il suo appartamento, la signora Rose vive apparentemente tranquilla con il marito Bert, sentendosi finalmente sicura fra le quattro accoglienti pareti.

Pinter ironizza sul sentimento domestico piccolo-borghese, e idealmente sembra dipingere alla maniera di Grosz. La deformità, fisica e mentale, sono costantemente sospese sul palcoscenico. Contrariamente alle teorie del razionalismo meccanicista, che pensava il mondo in forma di entità regolata da processi logici e matematici, la realtà immaginata da Pinter, sembra essere guidata dall’approssimazione, dall’incertezza e il disorientamento. Nessuno dei personaggi sembra avere le idee chiare su dove si trovi e perché, l’unico riferimento luminoso è la misteriosa stanza che dà il titolo alla pièce, minuscolo spazio dall’intimità patologica e pantofolaia, paradossalmente accattivante e rassicurante.

Una donna dal passato torbido e misterioso e il suo taciturno marito ne sono gli enigmatici inquilini, attorno ai quali si muovono strani personaggi in cerca di qualcuno o qualcosa, accomunati da un’inspiegabile paura. Sospeso fra il teatro dell’assurdo e il teatro di Exis, il testo di Pinter è un lucido affresco, venato di comicità, sulla deriva della società contemporanea. Ma a un differente livello di lettura, La stanza suggerisce una sottile satira contro i regimi oppressivi, idealmente impersonati da Rose, dispotica verso il marito, ossessivamente gelosa della propria quiete personale, e sempre pronta a vedere ovunque nemici o persone sospette.

Ossessioni alle quali non sfugge nessuna dittatura, sovietica, africana o sudamericana che sia. E nel tragico finale, Rose assiste impassibile a un assassinio, necessario per ridurre al silenzio i fantasmi del passato, e mantenere lo status quo. Uno spettacolo scenicamente statico, ma emotivamente dinamico, grazie ai frequenti e repentini cambi d’atmosfera, con dialoghi improbabili sospesi fra comico e drammatico, finzione e realtà, nei quali si avverte un’eco del teatro di Ionesco. Un’atmosfera che Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti traspongono sul palco con grande maturità drammaturgica: goffe camminate, rantoli, urla e bisbigli, morbose complicità, attraverso i quali che danno vita a tutti i personaggi, alternando sulla scena inquietudini e idiosincrasie di anziani individui, i loro malesseri fisici dovuti all’età avanzata, e il vagare senza meta di una coppia di giovani, alla ricerca di un angolo tranquillo dove, è implicito, invecchiare insieme e diventare un giorno come Bert e Rose. L’utilizzo di maschere di gomma sui volti degli attori, ottiene l’effetto di deformarli e suggerendo l’idea che non si tratti di persone esattamente reali, ma solo di qualcosa di molto simile.

Anche a livello visivo, si dipinge un ritratto metaforico ma impietoso, di un’umanità che è arrivata in sensibile affanno alla seconda metà del Novecento, e che porta dentro di sé mezzo secolo di orrori di ogni genere. Smorfie d disgusto, o di crudeltà, segni visibili di un malessere. Alla chiusura del sipario, meritati applausi per un allestimento maturo e affascinante. Che conferma il Teatrino Giullare fra le più interessanti realtà teatrali italiane. di Niccolò Lucarelli

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