Hotel Belvedere, in prima nazionale al Metastasio di Prato

Dal 10 al 21 aprile per la regia di Paolo Magelli che a distanza di quasi trent’anni torna su questo testo traducendolo per la prima volta in italiano.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
03 aprile 2013 20:22
Hotel Belvedere, in prima nazionale al Metastasio di Prato

Dal 10 al 21 aprile debutta in PRIMA NAZIONALE la nuova produzione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, HOTEL BELVEDERE di Ödön von Horváth, con la regia di Paolo Magelli. Dopo averlo presentato in una versione croata al premio Roma di Gerardo Guerrieri nel 1978, a distanza di quasi trent’anni Paolo Magelli torna su questo testo traducendolo per la prima volta in italiano. Tra gli attori, Marcello Bartoli affianca sulla scena la Compagnia Stabile del Metastasio - Valentina Banci, Francesco Borchi, Daniel Dwerryhouse, Elisa Cecilia Langone, Mauro Malinverno, Fabio Mascagni. Le musiche sono di Alexander Balanescu, le scene di Lorenzo Banci, i costumi di Leo Kulaš, le luci di Roberto Innocenti. Note di regia: Ödön von Horváth ha lavorato alla stesura di Hotel Belvedere dal 1922.

Iniziò a scriverlo a Berlino due anni dopo l'uscita di Das Buch der Tänze, il suo primo dramma scritto nel 1920 a 19 anni, mentre lavorava anche al bellissimo Mord in der Mohrengasse, che vide la luce nel 1923. Horváth lesse più volte Hotel Belvedere agli amici berlinesi e fece anche quattro viaggi a Murnau, una splendida cittadina non lontana da Monaco di Baviera per cercare di portare a termine l'opera, nella quiete dello Staffelsee, dove viveva la madre. Nella prima stesura del testo, sul manoscritto che oggi si trova a Vienna, appare più volte la dicitura poi cancellata ma che sembra riemergere sempre e con forza, Hotel Europa.

Horváth, l'Europeo per antonomasia, aveva intuito che questa volta la sua adorata, meravigliosa, fanciulla Europa non sarebbe stata rapita per amore da un Dio sotto sembianze di toro che l'avrebbe nascosta in un'isola non lontana da Cipro, ma che un terribile mostro l'avrebbe divorata. Vedeva - il giovane Horváth - la cattiveria mitteleuropea radunarsi come le nuvole nere che gonfiavano il cielo del lago di Staffel, e capiva che il destino della sua Europa sarebbe stato terribile. Il suo cuore batteva impazzito dalla paura di questa ‘malattia umana’; ripulì allora il testo e decise il titolo: Al Belvedere.

Come ben sappiamo l'Europa che l'impero austriaco gestiva fu il primo tentativo di unire popoli diversi in un sistema di monarchia associativa. Franz Ferdinand venne ucciso a Sarajevo anche per la sua visione moderna e tollerante di questa idea politica. Horváth era ossessionato dalla incapacità che l'aristocrazia e la borghesia intellettuale mitteleuropea mostravano nei confronti delle utopie positive. Fu il primo a riconoscere che dietro la facciata della grandezza si nascondeva un mondo volgare, malato e esclusivamente legato al potere del denaro.

Un materialismo che avrebbe portato direttamente al nazismo. Il bambino Horváth aveva capito che dentro le cupole dorate dello Jugendstil, dietro gli ori di Klimt e dentro gli occhi dei personaggi di Schiele, c'era il vuoto e la disperazione. Strano, ma l'Europa di oggi pare essere non andata molto lontano da quell'Europa di Horváth. L'ultima stesura di Hotel Belvedere è del 1923; il libro verrà dato alle stampe nel 1925 e vedrà la luce nel 1926. Perché Horváth scelse come titolo Al Belvedere? Sicuramente non si riferiva al famoso castello Viennese che porta il nome italiano; no, Zur schonen Aussicht significa in tedesco ‘al Belvedere’ nel senso di ‘vedere il bello’, perché è proprio entrando nel suo albergo ‘Al Belvedere’ che si entra nel ‘Malvedere", ovvero nel ‘vedere il brutto’ della nostra anima, che lui mette in scena con grande cinismo.

L'Hotel Belvedere, dove si svolge questa commedia ‘noir’, è infatti un albergo situato nella provincia prealpina bavarese, che è abitato da una popolazione europea senza speranza: intellettuali falliti, ladri di automobili, assassini, aristocratici decaduti, proletari graziati da un Dio ingiusto che sembrano usciti da un laboratorio di Wilhelm Reich. In questo testo, infatti, si incontrano e si scontrano con indicibile violenza e humour noir tutte le classi sociali di una Europa senza amore affaccendata a salvare se stessa e a distruggere gli altri, i più deboli.

Questo testo non è soltanto un incredibile vaticinio che ci porterà agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ma ci lascia sconcertati perché in esso riconosciamo senza dubbio le inquietanti anomalie antiutopiche della storia che stiamo vivendo. Gente che non ha più un'utopia, legata solo ed esclusivamente alla disperata ricerca di una felicità volgare, materialistica, gente malata di voglia di dominare gli altri, di repressione, di qualunquismo fascista. Gente che sembra già essere uscita dal romanzo di Horváth Gioventù senza Dio, sua ultima opera, che uscirà postuma.

"Io sono qualcun’altra, ma riesco ad esserlo solo così raramente", dice Ada Von Stetten nel terzo atto. E questo sembra essere un motto e una delle tragedie del nostro tempo perché, attenzione, i personaggi di Horváth, di tutto il suo teatro, non sono i rappresentanti archeologici dell'Europa dei tempi passati; no, Horváth crede giustamente che tutti noi europei siamo permanentemente malati di ‘paleofascismo’, una malattia prodotta dalla nostra storia che ci ha resi portatori di un virus di odio che è entrato nel DNA dei nostri popoli, che si riattiva puntualmente con l'acuirsi delle crisi sociali.

Odio sommerso da rassegnazione e apatia che si trasformano in una sorta di depressione collettiva. Una malattia che oggi sta imperversando di nuovo in Italia e in Europa. È una malattia strana questa che Horváth ci diagnostica, è qualcosa che lo avvicina alle teorie di Fromm, ma pare contaminarle con le analisi di Reich e con i teoremi di Jung; la nostra è una cattiveria sepolta dall'assenza della speranza, sepolta dagli incubi che ci hanno tolto la voglia di sognare e di credere nel bello; è una miscela letale che può esplodere improvvisamente e incendiare tutto.

Horváth è senza dubbio in tutta la sua opera l'unico vero erede di Büchner e fu proprio in occasione della consegna del premio Kleist, che gli fu consegnato nel 1931 a Monaco, che il grande Carl Zuckmayer lo consacrò prevedendo quello che sarebbe accaduto due anni dopo: "Rappresentate i testi di Horváth e poi nascondeteli, perché presto saranno bruciati dall'odio". Accadde due anni dopo. Nel 1933 tutti i libri di Horváth furono bruciati dai nazisti. Hotel Belvedere è una spietata radiografia delle nostre anime malate.

Una nuvola nera che ci deve aiutare ad intravedere l'inizio della strada che ci porterà fuori dalla cattiveria e dalla paura.

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