Dopo la prima di “Giorni felici”: riflessioni su Beckett.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
27 gennaio 2000 09:50
Dopo la prima di “Giorni felici”: riflessioni su Beckett.

Un vecchio professore del liceo amava ripetere, a proposito della filosofia, che questa o ti sconvolge o non serve a niente. La stessa cosa potrebbe dirsi per il drammaturgo irlandese Samuel Beckett, la cui opera “Giorni felici” è in scena al teatro Rifredi fino a domenica 30 gennaio, interpretata da Lucilla Morlacchi e con la regia di Giampiero Solari. Il drammaturgo-filosofo, oggetto di numerose interpretazioni ma raramente compreso fino in fondo, non amava i compromessi: nella sua progressiva estremizzazione di ciò che il teatro doveva essere, e cioè linguaggio essenziale in grado di tradurre esperienze fondamentalmente statiche quali l’attesa, il ricordo, la lotta inane contro la futilità dell’esistenza, il rapporto con il pubblico doveva essere immediato e diretto.

In tale ottica il ruolo dell’attore diventava quello di rigoroso esecutore del testo, perché ciò che contava era di creare immagini destinate a imprimersi nella memoria per dar corpo e concretezza fisica a riflessioni sulla condizione umana. Fatta questa premessa, si capisce che le opere di Beckett sono difficili, spesso ostiche per il pubblico o addirittura irritanti. In “Giorni felici” la protagonista Winnie-Lucilla Morlacchi, donna di mezza età, monologa su sé stessa e su pochi, semplici oggetti, sprofondando lentamente al centro di una stanza grigia e vuota e illuminata da un fascio di luce accecante.

Lo spettatore viene inizialmente scosso da un suono stridente e lancinante; dopo questo shock acustico viene risucchiato dalla semplicità estrema delle frasi e dai silenzi della protagonista. Se Beckett mette a dura prova gli attori, nondimeno lo spettatore si vede catapultato direttamente al cuore del problema; il teatro come narrazione e rappresentazione, che accompagnano gradualmente lo spettatore, attraverso l’interpretazione dei personaggi, al contenuto di un’opera, con Beckett diventa uno strumento per costringere lo stesso, qui ed ora, a fare i conti con tematiche esistenziali.

Sì, Beckett sconvolge e disorienta, ma lo fa’ da artista, con raffinata levità.

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